Io sto nelle retrovie – Covid19
Io sto nelle retrovie.
Al fronte ci sono persone coraggiose che affrontano il nemico corpo a corpo, faccia a faccia.
Io invece sto là dietro.
L’ambulatorio è in penombra, quasi deserto. Ma non è chiuso. C’è poco movimento, sempre meno man mano che passano i giorni. Le infermiere non ci sono, i medici neppure, o arrivano saltuariamente. L’attività è ridotta al minimo, organizzata per ottimizzare le risorse, concentrare gli appuntamenti, risparmiare i contatti.
È l’era del Covid 19. È l’era dell’emergenza. Tutto ciò che non è urgente deve essere rimandato. Le forze, i mezzi, i dispositivi di protezione, il personale devono essere concentrati su questa temibile situazione.
Una malattia nuova altamente aggressiva ci sta attaccando e se pure in gran parte passa senza troppe conseguenze, a volte, troppo spesso, provoca seri danni. Chi ne è afflitto in forma importante necessita di assistenza rianimatoria. A volte non ce la fa. Oppure riemerge alla vita dopo settimane sospese nella terra di mezzo del coma. Chi è attaccato in forma lieve deve essere monitorato per prevenire eventuali peggioramenti e deve restare isolato a lungo, peggio che agli arresti domiciliari. Siamo nel mezzo di una pandemia: un respiro, un tocco lieve, possono essere fattori di diffusione del virus. Si deve restare lontano dagli assembramenti umani, fossero pure di due sole persone, fossero pure un medico e un paziente.
un respiro, un tocco lieve, possono essere fattori di diffusione del virus.
Non era mai successo nelle società moderne. Non a questi livelli.
La mobilitazione è globale. L’ospedale è messo sottosopra, rivoltato come un calzino, riorganizzato da oggi a domani per fare spazio a questo nuovo genere di malati. Tutto è stravolto: turni, personale che si ricicla dove c’è bisogno, assistenza alle persone infette bardati come astronauti sulla luna. Assoluto isolamento. Vietate le visite ai degenti. Chiusi gli uffici. Rimandati gli appuntamenti per esami non urgenti e visite di routine.
Una rivoluzione che sgomenta.
Fuori dall’ospedale ci sono tendoni per il triage, per controllare la temperatura corporea, fermare i casi sospetti e limitare comunque gli accessi. Le persone devono indossare una mascherina. Tutti: sanitari e visitatori, uomini della protezione civile, volontari e poliziotti.
Tutto è concentrato, a ragion veduta, sull’orrendo virus.
Però.
Però c’è una fetta di popolazione che ha altri malanni. Non è che ora che c’è il Covid 19 le altre questioni di salute non esistono più. Tutto quello che è rinviabile si rinvia, ma non è così indolore. Si rimanda un appuntamento, però i problemi restano. Ed è per questo che sono qui, al mio posto allo sportello. Perché la vita non è solo Covid 19, anche se ora non si parla d’altro. È fatta anche di una quotidianità sconvolta, tutta da gestire.
Giorni passati al telefono ad avvisare persone che i loro problemi vanno accantonati, c’è qualcosa di più grave ora, meglio preservarsi e restare a casa per non averci a che fare, tenersi gli acciacchi e aspettare tempi migliori. Ore trascorse entrando con la voce nelle case di anziani rassegnati, di lavoratori che avevano già chiesto permessi sul lavoro, di genitori con bambini da far visitare, di dolori tenuti più o meno sotto controllo da terapie che magari devono essere sistemate, di analisi del sangue che il medico deve assolutamente vedere. Niente conta ora, signora, signore. Non venite qui, vi esponete a un contagio che può essere fatale.
Tempo impiegato ad ascoltare i bisogni, a riportarli al medico, a far da tramite. E il medico chiama a casa il paziente, lo ascolta, lo tranquillizza: ma certo, invece che a marzo ci vediamo a giugno, se va tutto bene. Se ci sono problemi chiami pure, noi siamo qui.
circondati da esseri alieni in tuta da astronauta di cui forse vedi solo gli occhi pietosi
Noi siamo qui, per ora.
A rispondere alle chiamate di persone allarmate, dubbiose. Persone che non poche volte ci fanno gli auguri, ci chiedono di stare attenti al virus, ci ringraziano proprio perché ci siamo, ci augurano buon lavoro.
Quasi nessuno protesta per la sospensione della visita. Tutti capiscono, tutti hanno paura. Quel disturbo cosa vuoi che sia di fronte al rischio di finire in rianimazione con i polmoni che non funzionano più, a morire da soli, circondati da esseri alieni in tuta da astronauta di cui forse vedi solo gli occhi pietosi, e magari è l’ultima cosa che ti rimarrà prima che tutto si spenga.
No, meglio tenersi i propri guai, che in fondo sì, possono aspettare. Però mi raccomando, non vi dimenticate di me… Quando questa cosa finisce me lo date un altro appuntamento, vero? Il più presto possibile, vero? Ma secondo voi, quando finirà?
Quando finirà… E come si fa a saperlo? Non si può infondere negli altri la paura che attanaglia anche noi, operatori della sanità che dobbiamo solo essere a disposizione e rassicurare e risolvere. La verità è che lo sconvolgimento generale ha travolto pure noi, ma facciamo del nostro meglio per portare avanti il nostro lavoro.
Ci sono medici, infermieri, operatori, che rischiano la vita in prima linea.
Io sto nelle retrovie, per ora ho rischi limitati che, man mano che si riduce l’afflusso di gente allo sportello si riducono anch’essi.
Il mio lavoro, ora, forse non salva le vite. Ma mantiene il quotidiano, organizza il futuro, risolve piccoli problemi che per i reclusi in casa sono insolubili, tiene ancorati i pazienti alla speranza che presto o tardi sarà tutto come prima e si potrà tornare allo sportello prima di entrare dal medico, e fermarsi a discutere su un’esenzione del ticket che manca, sui ritardi degli appuntamenti e sulla magnifica, unica, banalità della vita normale. Perché ora non c’è nulla di normale.
L’ambulatorio è quasi deserto. Ma il telefono vive e squilla in continuazione, unico suono che rimbomba fra gli spazi vuoti. E noi siamo qui.
Ci sono poi quelli che hanno visite di una certa urgenza, non possono aspettare che il Covid prenda la sua corona e se ne torni da dove è venuto. Per loro l’ambulatorio è aperto, funziona, è solo riorganizzato. Sono pochi, ma ci sono. Qualcuno poi rinuncia nonostante l’urgenza: dopo tutto non si sta così male.
E ci sono quelli che sbagliano data. Arrivano più o meno dubbiosi, mascherina o foulard intorno al viso, un po’ di timore di incappare nella brutta bestia… per scoprire che forse il loro giorno era il prossimo mese. Li vedi sospirare sgomenti, sorridere imbarazzati, avvolgere la faccia nella sciarpa, o rimettersi la mascherina che avevano tolto per parlare e dileguarsi velocemente.
Ha un che di surreale e malinconico questo ambulatorio vuoto, che richiama alla mente per antitesi i nuovi reparti creati per fronteggiare il nemico. Reparti dove invece regnano confusione, desiderio di fare del bene, paura del contagio, senso del dovere; dove i numeri crescono vertiginosamente, e a ogni numero corrisponde una persona, una storia che non si fa in tempo a conoscere perché il tempo per fermarsi o ascoltare non c’è. Qui, davvero, chi lavora merita rispetto e gratitudine.
Io che invece sto nelle retrovie, in questo ambulatorio vuoto, sembra quasi che non faccia la mia parte perché corro meno rischi. Ma io so che in questo momento tutti siamo indispensabili, che il più piccolo contributo è fondamentale per dare una mano nell’emergenza.
So che ciò che io faccio oggi aiuta a far scorrere la vita con una parvenza di normalità per chi, per sua fortuna, non è coinvolto nell’epidemia.
Non solo prima linea.
Io lavoro nel silenzio delle retrovie, anello di congiunzione fra un sistema stravolto e le tante, tante persone disorientate dal caos. E mi sento utile come una staffetta tra le trincee.