I miei viaggi per la cioccolata
Il viaggio è comodo, di linea, e non c’è bisogno di alzatacce.
Decolla nel pomeriggio già inoltrato e a Torino ci arrivo che è già sera, col giorno che spira dentro l’aeromobile, quasi di colpo e a metà del viaggio.
Scendo quasi sempre allo stesso albergo: poche stelle, ma bastanti a farmi ottenere un letto col materasso senza avvallamenti e una doccia con la cabina rigida. Non c’è quella fastidiosa tenda di cerata dozzinale che mi abbracciava gambe e braccia come un polpo, che aderiva insolente, antigienica e fradicia di schiuma del sapone delle bustine mignon, massimo due, che trovo sulla mensola dello specchio che da nuovo doveva essere bianco.
Cerco di assonnarmi guardando un film d’autore tutto primi piani o tutto piani lunghi, tratto da un racconto che anche sulla carta mi aveva dato tanta noia. Il piccolo televisore dovrebbe essere a colori, ma mette in mostra solo gialli insoliti, pallidi blu e verdi inaccettabili. Lo spengo, manco è buono per farmi addormentare. Dopo un po’ mi alzo e vado al mini frigo incassato sotto il tavolino: sopra ad esso tre fogli di carta da lettere intestata dell’hotel, perché il motivo del viaggio potrebbe anche essere quello di venire a scrivere una lettera.
Attaccato al muro, su foglio A2 le istruzioni da seguire in caso di incendio che nessuno legge mai, tranne me naturalmente che ogni volta ricontrollo, caso mai potesse esserci qualcosa di diverso.
Riesco ad addormentarmi, non tanto da poter dire “ho sognato solo che non ricordo cosa”, ma un dormiveglia senza l’ansia di dover dormire a tutti i costi, quello sì, quello penso che si possa dire.
poche stelle, ma bastanti a farmi ottenere un letto col materasso senza avvallamenti
Quando arriva però il momento in cui capisco che rimarrò comunque vigile, scendo dal letto e apro le imposte del balcone lasciando abbassata la serranda fino al pavimento. Dai suoi minuscoli, numerosi fori entra, perché io la vedo entrare insieme ai suoi rumori, l’aria scura e densa della notte: non è del tutto completato, in questa parte di città, il cambio turno tra il popolo del giorno e quello della notte.
Invece di contare pecorelle faccio un gioco che ho inventato io: seduto con le spalle contro la testiera che ho resa morbida frapponendo due cuscini, tento di capire da ogni calpestio che sento in strada se chi sta passando sia un giovane o una donna con bambino, un ubriaco o addirittura se è qualcuno che è già passato poco prima. Non è importante indovinare, non mi affaccio di certo a controllare se ho sentito giusto: il gioco consiste nell’impegnarsi a fondo per accoppiare un rumor di passi a un certo tipo di persona. E’ un gioco di cui non tengo il punteggio e alla fine non so se io abbia vinto oppure perso. E’ un gioco stupido, lo so, senza nessuna posta e non digitalizzabile per qualche video game.
non è del tutto completato, in questa parte di città, il cambio turno tra il popolo del giorno e quello della notte
Comunque vada il resto della notte, io l’indomani alle dieci meno venti, come un pupo comandato da mille miglia di distanza, sono davanti alla vetrina principale della cioccolateria. Nelle pasticcerie di giù la regina è la ricotta, perciò è il bianco che predomina, spezzato dalle macchie del colore della frutta. Qui invece le vetrine sono scure, austere come lo è il cacao, placate col brillio d’oro delle decorazioni.
Non passa un minuto che mi apre invitandomi ad entrare Mimmo Gioè, il figlioccio di don Pino, che è lo stesso che mi manda. Mimmo ha fatto fortuna in fretta da quando è arrivato qui nel ’77. Quasi non mi saluta, per lui sono un fattorino da mandare via al più presto ma nello stesso tempo il più importante dei clienti da servire.
E’ nella quiete riservata del suo ufficio che inizia un rito quasi atavico: prima di me veniva qualcun altro, non so chi fosse, né per quanti anni ha fatto quello che sto facendo io. Sul tavolino al quale siamo seduti c’è un bilancino di precisione, la qualità che occorre in queste occasioni.
Lui si sfila la fede e la pesa; la riconosco, la riconoscerei ovunque da quanto è lucida e splendente.
La cifra digitale che spunta sul display è sempre quella, i soliti sette grammi di oro zecchino, preziosissimo regalo dello zio; Mimmo se la toglie solo per il commercio che intrattiene con me, e poi mai più da quando si è sposato.
La seconda a essere pesata è la bustina che ho portato: sopra c’è la sua sigla per cui il peso della tara è garantito; la polvere che è dentro non è terra di Sicilia, troppo raffinata per essere natia, e infatti se la mette in tasca senza nessuna commozione. Pesa poi la sua busta: è anch’essa trasparente, un po’ più grande della mia ma contiene nove tavolette di cioccolata quasi pura, e anche questo quasi non è natio del sud.
Lo zio ne è goloso ma delle spedizioni non si fida, di me sì, almeno quanto basta per potergli fare da fattorino.
Quarta e ultima ad essere pesata è la mia fede, quella al dito, l’unica che mi è rimasta.
Cinque grammi, diciotto carati, ma ugualmente preziosa e invidiatissima da tanti giù a Palermo. Stesso peso, finalmente il rito si è compiuto.
Ripongo le tavolette nella scatolina a temperatura controllata, un gioiello che io non potrei permettermi e faccio un cenno di saluto a Mimmo che ricambia appena.
– Ci vediamo il 19 – gli dico.
– Ci vediamo il 19 – conferma alzandosi e guardando già verso la porta.
In realtà sappiamo entrambi, senza essercelo mai detto, che non dipenderà da noi. E’ che ci illudiamo, ciascuno a modo suo, che questa vita siamo stati noi ad essercela scelta.