Un giorno nella vita (Covid-19 rmx)
Un mese fa non avrei avuto questo problema. Il fatto è che molte cose sono cambiate. Gli automatismi, quelle cose che diventano regola senza manco volerlo, ad esempio, sono andati a farsi fottere. Uno di questi si chiama fare andare la lavastoviglie. Prima lo facevo ogni tre giorni. Ora mangio sempre in casa e dopo due giorni non ci sta più niente. Solo che il mio cervello non mi dice di fare andare la lavastoviglie, ma di aspettare il terzo giorno. E il terzo giorno lo sportello non si chiude. Giro una padella. Si chiude ma non fa bip. Padella sotto e pentola sopra. Si chiude ma non fa bip. Padella nel ripiano sopra e giù la prima Madonna. Bip. Per intercessione, ma alla fine ce l’ho fatta.
Sono le undici del mattino e ho guardato il mondo dalla finestra più volte oggi che in tutto il 2019. Mi pare di essere Jurij Zivago di fronte al grande inverno siberiano. Non poteva andare in biblioteca, il poveretto. Non poteva fare proprio nulla, a dire il vero, se non guardare il niente dalla finestra di una dacia. Il suo Covid-19 era bianco e alto un paio di metri. Dalle mie parti si direbbe un culo di neve. In Siberia non lo so. Poi passa una signora con il cagnolino e distolgo lo sguardo. Non sta bene. Quando ero bambino c’erano un sacco di cose che non stava bene guardare: le donne nude in Tv, i drogati sulla strada che portava alla stazione, le persone anziane. Quest’ultima non l’ho mai capita, ma mia mamma così voleva. Le persone a passeggio con il cane no, nessuno mi ha mai detto di non guardarle. Però se le guardi, penso io, sembra quasi che le giudichi perché sono in giro con il cane. No signora, stia tranquilla, non la denuncio. Guardavo la mascherina. Ne avevo una uguale quando lavoravo in fabbrica, sa? Per tirare su due soldi durante gli studi, come fanno tutti. La fabbrica, se le interessa, non c’è più. Nel 2010 ci sono passato e c’era. Nel 2013 sono ripassato e non c’era più. Vendesi. Bello grande, anche. Sì, quell’altro virus, esatto.
C’è un bel sole. Appoggio un avambraccio al davanzale del balcone e ci metto il mento sopra. Ogni tanto passa una macchina. Autobus arrivano vuoti e ripartono vuoti. Tempo fa vidi un film sulla rivoluzione russa. C’era un capostazione che faceva il suo lavoro nonostante di treni da quelle parti non se ne vedessero da tempo. Ecco, gli autisti fanno una cosa simile. Non ricordo il nome del film. Era sabato sera e ero appena tornato a casa da una qualche bettola. A quei tempi si poteva ancora. Cosa vuoi che mi ricordi. Dovzhenko, Ejzenstejn, Tarkovskij, quella gente lì. Poi sì, lo so, frega un cazzo a nessuno come si chiamasse il regista. Ta ta ra ta ta ta. L’inno di madre Russia esce flebile dalle mie labbra mentre fisso distratto il prato davanti casa. Oltre il prato una strada. Deserta. Forse un giorno arriveranno i tartari.
Il cielo è sgombero. Scie non se ne vedono da un po’. Uno dei rimedi contro la noia, molte estati fa, era guardare le scie degli aerei e immaginare dove i velivoli fossero diretti. Un giorno anch’io salirò lì sopra. Sì, almeno questa l’ho mantenuta. Di giocare in serie A invece non mi è riuscito. Niente, manco le scie degli aerei c’è rimasto da guardare. Pare quasi non voli più nessuno da queste parti. Io con la noia c’ho esperienza. Se facciamo una gara, tipo una corsa di ciclismo, sulla strada della noia sto davanti io a tirare il gruppo che un paio di Tour me li sono fatti in carriera. La noia da quarantena Covid-19 però è di un livello superiore. Mostruoso. Il Galibier, l’Iseran e il Tourmalet in un’unica tappa. Anche un po’ di pavè che non guasta mai.
Poi vabbè, lo so che questo non dovrei dirlo. Ma tant’è. S’è fatto buio e i cani del quartiere hanno finito di pisciare, mi infilo un paio di scarpette da ginnastica e, incapucciato per non farmi riconoscere, mi metto a correre qui dietro, nell’isolato. Non c’è davvero nessuno, abbiate pazienza. Una mezzoretta e ritorno in prigione. Una, due, cinque, dieci volte le stesse viuzze. Roba da diventare scemi. Ogni tanto devio dal circuito e arrivo al limitare dell’isolato, là dove si possono vedere le luci della grande città proibita. Il centro, i negozi, le vetrine. Cose che furono. Quella è la linea rossa. Anche quando avevo dodici anni avevo dei confini. E finivo sempre lì, un po’ come i romani sulla riva sinistra del Reno. Frenavo, mettevo un piede a terra e guardavo oltre la linea rossa. Le macchine, i rumori, le persone, la vita di chi aveva giusto un lustro di anni più di me. Ora oltre la linea rossa non c’è più vita che al di qua. Però, oltre al mio fiato, mi pare di sentire ancora il rumore di ciò che gli occhi non possono vedere. E con il rumore prendono forma anche le cose. E con la forma arriva anche la vita. E non sento più i miei passi e non vedo più le finestre chiuse e non c’è più nulla di brutto e cattivo.
Ho lavorato. Ho finito un libro. Ho ascoltato un disco di Tom Waits. Mi sono informato su un pittore francese del seicento, tale La Tour (ma senza maglia gialla), che sembra un po’ Caravaggio. Sembra un po’ Caravaggio: bei tempi quando si andava per musei a sentire i vicini sparare stronzate per giustificare il prezzo del biglietto. Ho fatto anche da mangiare. E il letto. Dovreste vedere che piega il letto. Il fatto è che non mi sembra di essere migliore di prima. Nemmeno peggiore. Voi dite che questo tempo deve servire per capire questo e riscoprire quest’altro, ma io sempre quello sono. Ho gli stessi interessi. Lo stesso carattere di merda. Le stesse paure riguardo il futuro. Pubblico storie su Instagram che piacciono solamente a me. Talvolta mi compiaccio di me stesso, tal altra provo pena per quel tizio che mi imita allo specchio. Forse, solamente, è presto per capire certe cose. E forse, tal altre, non cambieranno mai.
La lavatrice ha fatto bip tre volte. Questo, di sicuro, è rimasto uguale a prima.