The hands of love
C’era il medico di famiglia. C’erano lo psichiatra e lo psicologo, i quali, nel dubbio di chi fosse la competenza, vennero entrambi. C’erano i genitori, la sorella e il suo migliore amico.
Infine c’era lui, Jean.
Una volta era il re delle sicurezze, ma ora sedeva su quel trono decadente che altro non era se non la sedia della sua camera. Con lo sguardo fisso nel vuoto. Non un movimento, immobile.
“E’ depressione” sentenziò lo psicologo.
“Non ha forze, può essere una grave anemia improvvisa” contraddisse il dottore.
“Forse è solo stanco….” suggerì timidamente l’amico.
Ognuno diceva la sua ormai da un mese a questa parte, ma oltre a guardarlo e fare prognosi non fecero altro.
Cosa frullava nella testa di Jean? Sembrava non pensasse per quanto era immobile. Gli unici movimenti, nonostante lo sguardo fisso, erano delle linee sulla fronte e intorno agli occhi che si piegavano e stiravano con brevi ma decisi movimenti. La madre quella volta gli si avvicinò, per osservarlo meglio. In profondità. E come nei quadri tridimensionali, dove devi fissare un punto al centro del foglio per vedere magicamente l’immagine venire fuori, la donna lo guardò dritto negli occhi e riuscì a intravedere nelle sue pupille piccole onde nere sfocate muoversi in maniera irregolare, ma non capiva. Stava guardando l’interno della mente di suo figlio. Non sapeva che quelli erano i pensieri del giovane e lui era immobile perché canalizzava tutte le sue energie per cercare di capire.
In quel momento la donna vide, inconsapevole, il mondo interiore di suo figlio, con quelle macchie che lentamente andavano a definirsi, prendendo forme di piccoli omini che si azzuffavano in un’orgia frenetica di dubbi. Un “tutti contro tutti”. Ogni tanto una figura usciva per un attimo dalla mischia, mostrando una parte di sé. Ma solo per un istante, come se avesse fatto un salto. E ogni volta che un omino saltava, Jean aveva un flashback. Un bel ricordo, che però non gli regalava un sorriso sul viso bensì una fitta, un dolore straziante e fulmineo all’altezza del petto. Di nuovo riprese la mischia furibonda. Non si fece aspettare un’altra sagoma a farsi vedere. Altro flashback, altra fitta al petto. Jean era come in preda a una maledizione vudù. Qualcuno teneva una bambola di pezza sulla quale infilava continuamente uno spillo ogni volta che un ricordo riaffiorava nella mente del poveretto. Però colpiva sempre allo stesso punto: al petto, altezza cuore. Era per questo che dentro di sé Jean urlava ai suoi pensieri di stare buoni! Li supplicava di calmarsi, si disperava perché non sapeva per quanto ancora avrebbe potuto sopportare quel triste gioco. Ma loro, ipocriti egoisti, erano troppo indaffarati a combattersi l’un l’altro per dargli retta e allora lui continuava a osservarli, cercando di capire se ci fosse un ordine in tutto quel disordine.
L’Amore per lui era sempre stata una sirena, affascinante, irresistibile e con una forza divina
Ma c’era un dettaglio non indifferente che rendeva l’omicidio o suicidio impossibile: non c’erano tracce di tagli o di ferite sul corpo. Niente di niente.
Glielo spiegò la madre. Quando i due si incontrarono gli occhi di lei piangevano lacrime di chi era arrivata troppo tardi a una tragedia che avrebbe potuto evitare.
“The hands that build, can also pull down, even the hands of love…” (Exit – U2)