Per otto serate
Quando si parla di Agosto, il primo pensiero che parte si insinua tra le birre sudate poggiate sul bancone di un chiringuito, fa un tuffo in uno spritz ed esce dalla cannuccia fino ad adagiarsi su un lettino a prendere il sole; e lì rimane, ore e ore disteso, a pervadere la mente permettendo al fisico di abbandonarsi al relax, non un relax normale bensì quello che si vede nelle pubblicità dei gelati di marca. Agosto, mese del ‘non mi va di fare niente!’, mese in cui tutto si ferma.
Per me, invece, Agosto è stato il mese in cui tutto è ripartito. Un semplice messaggio vocale nel gruppo del mio laboratorio teatrale, era la regista.
“Salve ragazzi, il teatro dove avete svolto il saggio di Luglio, complimentandosi con gli attori, ha apprezzato lo spettacolo e vorrebbe mettervi in cartellone per otto serate”.
Teatro. Spettacolo. Serate. Otto serate. Attori.
Mi interrogo allora su cosa sia un attore.
Cosa, non chi! Perché quando ci si approccia al teatro la persona fisica smette le vesti di umano e si plasma obbligatoriamente in materia artistica. Fisico e voce non esistono più in maniera assoluta, ma regrediscono gradualmente alla dimensione base di corpi e suoni che fanno dello spazio circostante la propria bolla di sapone, sottile, delicata e tenuta insieme dalla forza del singolo che si uniforma all’energia data dal gruppo.
Dopo questa “sparata filosofica”, sorrido ripensando a una scena de ‘La Grande Bellezza’ (Sorrentino, 2014) in cui il protagonista Jep prende in giro una performer durante l’intervista. “Vivo di vibrazioni, come si fa a spiegare con la volgarità della parola la poesia della vibrazione” dice lei; “E non lo so, ci provi” risponde lui. In effetti l’artista non ha poi tutti i torti.
Come posso riuscire a trasmettere con le parole quello che sento a contatto col gruppo? Come posso far capire quanto abbia significato per me questa opportunità? Come spiego, senza usare paroloni, che quello che mi è capitato non era tanto un sogno quanto il naturale svolgimento della mia vita?
Doveva accadere ed è accaduto, semplicemente.
E il mese successivo di prove non è stato altro che un crescendo di adrenalina, tensione da tagliare a fette, pranzi in sede e trepidante attesa di calcare di nuovo quel palco, stavolta però davanti ad un pubblico vero e che soprattutto conosce bene quel teatro, un teatro di periferia piccolo ma frequentato, modesto ma molto accogliente e che da decenni ormai permette ad attori, registi e performer di mettere in scena i loro lavori. E quando, il pomeriggio del debutto, sono entrato dalla porta principale, mi sono sentito come Marie e Francis, protagonisti di “Les Amours Imaginaires” (Dolan, 2010).
Arrivano insieme ad un festino in appartamento, invitati proprio dal festeggiato e padrone di casa: belli, eleganti, carichi di aspettative eppure insicuri, tesi, impacciati e anche un po’ incerti su cosa sarebbe successo. Si guardano intorno, scrutano, chiedendosi cosa ci fanno lì e soprattutto se quella serata sarà la loro occasione. Le sensazioni che ho provato io sono le stesse. Che ci faccio qui? Sono nel posto giusto, questo lo so, anzi sono nel mio posto e sono stato invitato ad entrare dalla porta principale ma sarò all’altezza di quel palco? Saprò rendere omaggio a tutti gli artisti che da lì sono passati, che io stesso ho applaudito come loro spettatore e che d’un tratto sono diventati colleghi?
Aprite il sipario, è il mio momento!