La propria felicità
Tra le tante cose successe quel giorno quella, proprio quella, non ci sarebbe voluta. E pensare che volevamo focalizzarci sulla nostra felicità.
Era rimasto seduto a fissare lo schermo del computer portatile, una voce cinguettava incazzata dal suo auricolare, era sicuramente femminile. Io rimasi a fissarlo, e mi ritrovai a pensare che ultimamente non riuscivo più ad allinearmi con i suoi pensieri, come fossimo su due sentieri completamente diversi.
Forse la telefonata giunse al termine qualche secondo dopo, o almeno questo pensai dato che aveva iniziato a passarsi le mani sul viso come a voler lavare via l’espressione stordita che aveva in quel preciso istante e che forse aveva visto riflessa sul monitor.
«Tutto bene?» il nulla cosmico, il silenzio più assoluto, il sunto dell’oblio risiedeva in quell’uomo.
Personalmente, non sapevo che pesci prendere. Non siamo mai stati due grandi comunicatori: capaci di stare ore nella stessa stanza senza fiatare e fissando i rispettivi monitor. Ho sempre sostenuto che due coinquilini sarebbero più attivi rispetto a noi due che di fatto eravamo una coppia.
Dicevamo… Il vuoto delle sue pupille dilatate; non aveva ancora fiatato ma finalmente aveva tolto l’auricolare con un movimento del braccio lento e quasi meccanico, ed io rimanevo lì in attesa che mi venisse concessa udienza fino a quando non si voltò, occhi ancora sbarrati «Era mia madre…» pronunciò, e stranamente non ne ero stupita anzi, mi ritrovai a comprendere che ne ero praticamente certa. Ma cosa volesse sua madre da lui, in quel preciso istante, continuava ad essere un mistero.
Il bicchiere restò appoggiato in attesa, come me.
«Ma si può sapere cosa sta succedendo?» ammetto che chiedendoglielo usai un tono molto aspro, ma provo a sfidare chiunque a mantenere pacatezza quando ci si ritrova in situazioni simili, anche se sinceramente, da quello che apprenderete, sappiate che non lo auguro a nessuno.
Avevo davanti a me quello che mi fece capire la reale definizione di “sacco di patate”; a mala pena riusciva a reggersi in piedi, non sapevo come “aiutarlo”.
Solo dopo un’altra ventina di minuti lui riuscì a sillabare qualcosa, senza grande successo e solo dopo essersi seduto nuovamente sulla sua sedia nera con le rotelle. In tutto questo io ero ancora lì, con sospesi sia il fiato sia la matita che aspettava di tornare operativa sul foglio.
Suo padre era sparito.
Neanche un biglietto sulla lavagna in cucina, un messaggio, niente di niente. Il tono di sua madre al telefono allora non era arrabbiato come avevo sospettato, ma a pensarci bene, se mio marito dovesse sparire mi arrabbierei e anche parecchio.
Una serie di telefonate e tutti convocati in quella casa che aveva visto i natali del mio compagno e dei suoi fratelli, manco si trattasse di una veglia funebre, ma ammetto che il morale era praticamente lo stesso.
Non ne bevve nemmeno un sorso. Il bicchiere restò appoggiato in attesa, come me.
Una situazione tutta siciliana: la porta d’ingresso lasciata aperta in modo che tutti potessero entrare senza suonare il campanello. Andare costantemente ad aprire la porta a chiunque avesse suonato avrebbe portato ad un costante e disturbante “dlin dlon” in un momento che invece richiedeva la massima concentrazione, da parte di tutti s’intende, per risolvere l’annosa questione: dov’è finito papà?
Ore trascorse con i telefoni tra le mani, un invio frenetico di messaggi tra parenti e amici da fare invidia a qualsiasi batteria di piccioni viaggiatori addestrati, appelli sui social che riportavano un accorato “AIUTATECI A RITROVARE NOSTRO PADRE, CONDIVIDETE” con descrizioni e foto dettagliate di quell’ometto dal sorriso simpatico, occhiali un po’ vecchi che stavano buffamente storti sul naso, la sua solita camicia a scacchi, tanto odiata dalla moglie ma che lui avrebbe indossato anche per andare a dormire.
Niente, di lui nessuna traccia.
E dopo le ore, trascorsero i giorni. Le settimane diventarono due, tre, arrivando a diventare mesi; sei per l’esattezza.
Un giorno, ma davvero come tanti, decisi di cambiare strada e di incamminarmi per una lunga passeggiata riflessiva, ho sempre amato molto pensare per conto mio, soprattutto da quando io e lui avevamo intenzione di capire cosa fare della nostra vita insieme.
Ad un tratto una sorta di illuminazione mistica mi si palesò tra le meningi, presi il cellulare e provai a mandare un messaggio, al quale, sinceramente, non mi aspettavo alcuna risposta. Il mio cellulare vibrò, pensai di aver letto male, lì sullo schermo, ma il messaggio era chiaro e conciso: “chiamami”. Composi subito il numero.
Appena sentii che la comunicazione era stata aperta iniziai a chiedere se fosse davvero lui, cosa stesse succedendo e perché in quei mesi non avesse risposto a nessuno.
Lui mi interruppe, in effetti avrei potuto continuare all’infinito con domande a raffica, e una voce rispose con tono allegro, cosa che a dire il vero mi lasciò perplessa; avevo bisogno di capire.
«Ah. Capisco» fu la mia risposta, e continuai a parlare dicendo «Ma sei sicuro di…», cadde la linea. Ovviamente riprovai a chiamare ma la voce fastidiosa dell’operatore continuava a dire che il numero da me selezionato non era al momento disponibile.
E comunque la mia intuizione non era sbagliata: voleva “solo” cambiare vita. Ognuno di loro, la sua famiglia, aveva distrutto, uno dopo l’altro, tutti i suoi sforzi fatti per vedere la sua famiglia felice. E la sua, di felicità? Vi starete chiedendo… Beh, alla fine ha dovuto pensarci da sé.
Era felice, ed io lo ero per lui.