Un albero, un incanto
Ho scoperto di essere albero quando ero già immenso. Voglio dire che non ho i ricordi che dovrei avere, cioè quelli di un sonnolento seme germinato al buio del sottoterra o di una minuta pianticella paurosa delle suole di un monello o di un animale che di lì passava.
Quando ho aperto gli occhi per la prima volta su questa piazza immensa ero già esteso come un condominio popolare e alto fino ai merli del castello del signore che regnava qui.
Tuttavia la gente che è passata tante volte sotto le mie fronde mi guarda appena appena e poi va via, se non quando – stupore, bocche aperte, occhi spalancati dalla meraviglia – alza la testa ad ogni mia nuova e diversa fioritura: adesso pesche, l’anno scorso mele, a primavera li stupirò diventando un gelso.
Io sono albero ma nutro anche l’intima certezza che dovrei essere altro: ho ricordi di ben più estesi panorami, di corse contro vento e di appetiti animaleschi, e certezze di sentimenti da creatura complicata.
Di giorno mi inzuppo più di ansia che di pioggia, stormisco rami e foglie e scuoto paternamente tutti i nidi degli uccelli che di me si son fidati, cercando di ricordare un particolare che possa rivelarmi quel che ero al tempo di quando venni al mondo.
Inutilmente!
Né le nuvole, né le grida dei bambini che si rincorrono inciampando spesso sulle mie radici mi vengono in aiuto.
Avrò dunque immaginato, avrò solo sognato un sogno altrui?
Io sono albero ma nutro anche l’intima certezza che dovrei essere altro
Ma è di notte, ché tutto si è acquietato, che vivo – che io rivivo – un miracoloso sentimento, quando dal principio della strada che dal lago arriva fino a qui vedo apparire una bianca, malinconica figura.
Chi è questa dama illuminata dalla sua stessa luce che la notte viene scalza a passeggiare sotto i miei rami? Tanto fredde devono essere le sue mani se ad ogni sua carezza rabbrividisco fino alle radici più profonde, fino alla punta delle foglie più elevate.
Ogni notte la guardo come la guardai la prima volta che passò a trovarmi, ma non è la vista il mio senso più importante: se negli alberi fosse il tronco a custodirne la memoria, in uno dei miei più antichi anelli questa esile figura sarebbe di sicuro impressa.
Chi è questa dama illuminata dalla sua stessa luce che la notte viene scalza
Altrimenti come spiegare che svestendomi dell’apatia che indosso, anche adesso io la stia avvolgendo delle mie fronde e le regali non una pesca, mela o mora, ma un «oh!» di meraviglia per una caldarrosta come si conviene, schiudendo tra le sue mani un riccio come dal cartoccio venduto a un angolo di strada?
Sorride lei, e se la porta al petto, l’appoggia al cuore, poi si apre in un canto e inizia la sua danza.
E comincia la mia disperazione perché, per quanto il silenzio attorno possa essere assoluto, non una sola nota, né parola arriva fino a me.
E non mi basta il suo sorriso incantatore, né il leggiadro turbinio delle sue braccia: se fossi solo un albero ne sarei appagato e non potrei chiedere di più, ma la mia natura imprigionata è un’altra perciò mi dispero senza poter gridare e senza alcuna lacrima da traspirare.
per quanto il silenzio attorno possa essere assoluto, non una sola nota, né parola arriva fino a me.
Per quanto tempo lei possa rimanere lì, a me sembra che sia passato un solo istante: se ne va senza voltarsi indietro, la luce si ritira insieme a lei e in quel momento è assente anche il conforto che l’indomani tornerà.
È quasi l’alba, la luce avanza dall’altro lato della piazza, e adesso sento il primo carro che si avvia.