La mimosa e il fazzoletto
Si erano messe d’accordo col passaparola, l’allungarsi delle giornate aveva fatto capire loro che quel giorno sarebbe arrivato da lì a poco, e loro lo aspettavano con la stessa eccitazione di adolescenti che si preparano per il ballo di fine anno. Nei giorni precedenti avevano cercato di rendersi più belle e radiose possibile. Chi aveva optato per fiori gialli lucenti, chi per le misure oversize, chi aveva puntato invece sul profumo, altre sulla quantità, la loro somma aveva dato infine vita a un albero con una bellissima chioma gialla che ricordava un quadro del puntinismo.
Oggi, tutti quei pallini gialli ciacolano tra loro, sorridono sotto una bella giornata di sole e il vento li scuote aumentandone l’eccitazione. Arrivano i primi passanti. Le mimose ammiccano, sorridono, i primi rametti ad andar via sono quelli più bassi e più facili da raccogliere.
Un uomo passa velocemente e, senza guardare, acchiappa il primo mazzetto che gli capita sotto mano strappandolo violentemente. La mimosa urla: «Ahia!»
Lui la prende e la infila nella borsa schiacciandola tra il portatile e un manuale.
Ogni cinque o sei uomini che passano ce n’è uno che si ferma, qualcuno perde un po’ più di tempo cercando, più in là del suo naso, qualche ramoscello particolarmente folto.
Il giorno passa e a parte alcune ore meno affollate, l’albero si spoglia sempre di più. I fiori che rimangono non perdono la speranza, anche se verso sera i più bruttini si guardano tra di loro come per dire: “Lo sapevo, anche quest’anno siamo rimaste qui, sempre le stesse.”
Per loro fortuna i disperati non mancano mai e nemmeno i tizi che le vendono ai semafori e fuori dalle metropolitane, così nelle ultime ore di sole anche loro vengono agguantate e portate via.
Il sole è quasi totalmente scomparso tra i palazzi, è rimasto solo un minuto e striminzito ciuffetto, è quasi tutto ramo anche se di pallini gialli ne ha, ma sono piccolini e di un giallo spento. Fino a un’ora prima confidava nell’aiuto della luce, ma ora si rivela in tutta la sua semplicità.
La natura come alibi lo ha fatto crescere in alto e dietro, nascosto dagli altri fratelli, ma il ramoscello sa che è rimasto solo perché, diciamocela tutta, è veramente bruttino e come regalo non è il massimo.
Il vento della mattina è passato da un bel po’ e allora si chiede come mai si sente tirare… dall’alto in basso, destra sinistra: «Ahi, ohi…» una torsione alla base da entrambi i versi e poi lo strappo, il cordone ombelicale è tranciato.
Non avrebbero mai pensato di ricevere tanta gentilezza e il sorriso di lui li fa sentire bellissimi.
Lui è un uomo anziano, si è avvicinato lentamente mentre la mimosa era intenta a piangersi addosso. S’è fermato e ha osservato l’albero, dopo una prima delusione per non aver trovato più un solo rametto, gli si forma un sorriso che sconfina dalle zone intorno la bocca per dirigersi verso il resto del viso, interessando gote, occhi e fronte. Mette allora qualche sasso uno sopra l’altro, in modo da creare una piccola pedana, ci poggia il piede sopra, allunga il braccio più che può e afferra la base del ramo. La posizione, diversamente comoda, gli suggerisce di sbrigarsi e strappare quel ridicolo mazzettino nel minor tempo possibile, ma lui no, lui lo afferra delicatamente e lo comincia a spostare in alto e in basso, destra e sinistra, gli fa fare una piccola torsione in entrambi i versi e per finire poggia l’anulare alla base e con il pollice e l’indice lo tira e lo coglie definitivamente.
Prende dalla tasca un fazzoletto di stoffa, è piegato formando un quadrato perfetto, nessuno sa perché, ma ha sempre rifiutato quelli di carta. Forse perché li trova troppo moderni o forse perché sa che se li avesse utilizzati, suo figlio avrebbe un ricordo in meno di lui; ad esempio non potrebbe ricordare di quella volta che il papà inumidì con la lingua il fazzoletto per pulirgli la guancia destra… ma questa è un’altra storia. L’uomo arrotola il pezzo di stoffa intorno al gambo che ringrazia per la morbidezza.
Il ramoscello sfigato ora si sente un principe e la mimosa una principessa. Non avrebbero mai pensato di ricevere tanta gentilezza e il sorriso di lui li fa sentire bellissimi. La mimosa pensa alla biondona della mattinata strappata con noncuranza e infilata a forza nella borsa che, a differenza sua, ha fatto il percorso inverso, perché da figa si è sentita sfigata e umiliata.
Mimì arriva a casa con l’uomo del fazzoletto, ma non trova nessuna donna ad accoglierla, lui la poggia su un mobile, la guarda qualche secondo con un sorriso a labbra serrate e si allontana.
I pallini quasi delusi si domandano tra loro perché nessuna mano femminile li avesse presi appena entrati in casa. Si guardano intorno. Un fronte vede una finestra a destra, due porte chiuse a sinistra, un tavolino al centro e l’uomo di spalle ai fornelli, niente più. L’altro fronte invece vede il primo piano di una donna sorridente. I capelli hanno una piega mai vista prima, la carnagione non ha colori, ma solo sfumature di grigio, il nero è riservato ai capelli e alle pupille, lei, giovane, abbraccia un uomo in mimetica, anche lui colorato solo di sfumature monocromatiche.
Entrambi sono fermi, statici, ingabbiati, ma liberi dal tempo, all’interno di una cornice d’argento. I fiori sorridono commossi, si stringono tra loro e, morbidi sul fazzoletto, si addormentano.