L’amore ai tempi del Coronavirus (e della riqualificazione edilizia)
Non ci sono più le categorie di una volta. Di automobilisti, intendo. Gli anziani, per dire, il cappello non lo mettono più. O forse lo tolgono prima di salire in auto. Ne hanno le palle piene di essere perculati, ci sta. Di fianco a me c’è un anziano. Siamo fermi al semaforo, lui Panda grigia e io Fiesta blu. Ci guardiamo. Cerco il cappello sul suo cruscotto. Niente. Giusto un padre Pio anche assai posticcio. Mette la prima e guarda avanti. Mi pare scrolli la testa. Forse ha capito e l’ha presa male. Era un pilota e ha pure incrociato Stirling Moss, magari. Un tizio al mio paese diceva sempre di aver fatto un tunnel a Hamrin in un provino per la Fiorentina. Lo diceva al bar, un bicchiere di vino e lo sguardo trasognato a una finestra con vista sui bidoni dell’immondizia. Magari è vero. Però non è mai fregato un cazzo a nessuno, e anche questo è giusto dirlo. Forse l’autista pensa ad altro. Al Coronavirus. Del resto siamo io e lui a questo semaforo. E sono le 11 di mattina. Solamente sette giorni fa, hic et nunc, era concerto per marmitte, smog e bestemmie in do minore.
In giro c’è poca gente e con quella che vedi si instaura una sorta di cameratismo che prima mica c’era. Vai a correre e ti saluti con gli altri runner. Porti a spasso il cane e sono tutti sorrisi (a debita distanza) con gli altri cinofili. Io il cane non ce l’ho mica, però dietro casa c’è un parco dove fino a qualche giorno fa i bambini, con mio sommo disgusto, imitavano l’esultanza di Ronaldo e ora ci sono solamente cani che pisciano e cagano e gente che si complimenta per il coraggio mostrato. E non occorre manco tirare su la merda, che tanto quella pare sia immune al Coronavirus. Una pubblicità mi suggerisce un sito dove vendono carte per aiutare gli autori a creare storie. Niente siti d’incontri, quindi. Sono felice. Per una volta l’algoritmo di Facebook riconosce in me un autore di storie e non solamente un puttaniere. O forse pure l’algoritmo ha paura del Coronavirus. Chissà Tinder come se la passa, a proposito. In questo mazzo di carte, mi spiegano, ci sarebbero i vari ruoli. C’è l’eroe e l’antagonista e credo anche la pulzella, come dai tempi di Fedro è sempre stato. Stendo queste carte immaginarie al tavolino del bar, davanti alla tazza di caffè. Sposto il giornale, perché anche se per finta, le cose vanno fatte bene. Sarebbe come litigare con l’amico immaginario senza gesticolare. Una cosa troppo artificiale. L’eroe, mettiamo, è un innamorato di Piacenza. La pulzella sta a Codogno. Stanno insieme da poco. Poi c’è l’antagonista, che è di Codogno, stava insieme alla pulzella e porca puttana gli piace ancora e se la farebbe volentieri. Poi c’è l’imprevisto che scompiglia il tutto, che non ve lo sto manco a dire qual’è. Cazzo, esclamo, e batto le mani sul tavolino. Che non ci sia una storia del genere in tutta la bassa lodigiana?
Alla mente affiorano i ricordi di ben altre crisi, di curriculum inutili e porte girevoli bloccate. Non le vedi queste cose di solito
Ci sono tanti modi per scoprire una città. Anche la propria, che, alla fine, la si conosce e apprezza sempre meno delle altre. Del tipo guardare sempre il sedere alle altre donne e accorgersi, un giorno qualunque, che la tua morosa ha un par di chiappe di tutto rispetto. Uno di questi è girare a zonzo quando non si ha un cazzo da fare. Quando per la strada non c’è nessuno. Si, non capita mai, lo so. Però ora c’è il Coronavirus. Scheletri di edifici abortiti. Riqualificazioni urbane fuori portata. Aree dismesse in attesa di approvazione progetti. Alla mente affiorano i ricordi di ben altre crisi, di curriculum inutili e porte girevoli bloccate. Non le vedi queste cose di solito. Strade piene, tempo infame, cervello proiettato unicamente all’odio verso i propri simili. Certo, la cappella del Correggio in San Giovanni è un’altra cosa. Però le città le proprie stimmate da tempo non le mostrano più nel centro storico.
Le cassiere e le inservienti hanno tutte la mascherina. Alcune pure i guanti. Alcune, credo, pure due linee di febbre. Le cassiere sono due. Due numeri verdi e dieci numeri rossi. Del resto, manco dietro alle due casse aperte c’è una gran fila. Pasta poca, ma c’è. Acqua non manca. Quindi boh, mi viene da pensare che le foto di scaffali vuoti che girano sui social siano panzane. Scaffali in vendita di supermercati falliti. Una donna mi osserva imbambolato davanti alle confezione da sei di naturale. Mi guarda. Sorride. Forse anche lei credeva di doversi giocare una bottiglia bucata in duello a suon di schiaffoni e colpi di troia. Poi però mi sguscia avanti e si piglia due confezioni. Perché non si sa mai. E poi con questo Coronavirus del dimàn non v’è certezza e lei mica ci può far niente.
Prima di rientrare incrocio una giovane coppia. Le scuole sono chiuse e hanno tempo di pomiciare a qualsiasi ora, per loro non è poi così male. Chissà se nei lunghi sproloqui dei teenager innamorati c’è posto anche per l’ipotetica storia del piacentino innamorato della codognese assediata e dell’antagonista infoiato che vuol mandare il grande amore a puttane prima che arrivi il vaccino a ristabilire la normalità. Magari sì, lei ce la vedo chiedere al telefono al suo amato cosa farebbe in una situazione del genere. Ovviamente lui forzerebbe i posti di blocco. Come no. Tu dimmi cosa vuoi sentirti dire e io te lo dico. Funzionava così anche quando non c’erano né TikTok né la trap. E poi si potrebbero nascondere in un capannone di periferia oggetto di futura riqualificazione edilizia e fare l’amore fino all’arrivo del vaccino. Salgo in casa e butto sullo stereo i Public Image Limited. Alla fine, mi pare la cosa più sensata.
Not gotta be causing commotion
One drop not follow the motion
Not drop no proper emotion
One drop in all of this ocean
Ma nel mazzo di carte il vaccino che carta può essere?