Specchi Di Lingue
Premetto: non sono un linguista. Non ho passato lunghi e boriosi anni universitari a studiare le diverse accezioni, regole, e costrutti grammaticali di quei suoni e segni grafici che in volgare vengono chiamati lingue.
Sono solo affascinato da lettere e parole, che si formano sulle pagine ingiallite di volumetti impolverati e, oggigiorno, sul più vasto romanzo dai tratti camaleontici che viene versato quotidianamente sulle nostre pagine web; sembra una cascata di vino novello, pronta a soddisfare altri ghiotti assetati di parole come me.
L’amore per le parole, per le lingue di cui quelle parole non sono che il mosaico grezzo, mi porta a tentare questa comparazione “profana” tra due lingue, che da ormai qualche anno intrecciano la mia vita, come quella di tanti altri Italiani migrati verso lidi stranieri.
Sto parlando della nostra cara e beneamata lingua madre italiana e dell’inglese che, volente o nolente, sempre di più sta assumendo spessore e importanza anche per coloro che non sono parlanti nativi.
Con l’intensificarsi del turismo, dei viaggiatori nel mondo, questa benedetta lingua anglosassone sta prepotentemente diventando parte della società globale, dove gente di tutti i paesi e etnie si trova di questi tempi a dialogare, come in una palestra multi-culturale di comunicazione.
Le differenze morfologico, grammaticali, linguistiche sono ovviamente enormi, tanto che pure ad un bambino non risulterebbero difficili da individuare. L’italiano segue la struttura, il ritmo e la costruzione delle lingue romanze, o neo-latine, direttamente derivante dalla trionfante lingua dei Cesari. L’inglese appartiene in teoria alla famiglia germanica, anche se presenta diverse sfumature eterogenee, rubate ad altri linguaggi, che la rendono essenzialmente una lingua “meticcia” e in continua evoluzione. Ogni individuo parla di fatto il suo inglese, dal momento che la sua struttura sfugge ad ogni schematicità, e permette di scorrere come un fiume in piena, sfidando chi la parla ad inventare, mischiare e distillare nuove frasi e parole ogni giorno. Pensiamo ad esempio a quanto americani bianchi e di colore parlino in modo completamente diverso, spesso non comprendendosi nemmeno tra loro.
L’italiano è un canovaccio molto più rigido. Le regole da seguire sono numerose e consentono meno margini di manovra. La struttura della frase è infatti di un’alchimia tale che spostare anche un solo elemento provoca un effetto stridente e graffiante, come il suono di unghie affilate scorrere su di una lavagna scolastica. Basti pensare all’uso di un indicativo in una frase in cui andrebbe invece usato un congiuntivo; sfido chiunque a non dire che la frase non suonerebbe anomala e a tratti cacofonica.
Al di là di queste semplici osservazioni, le due lingue sono due modi diversi di intendere la vita e due diversi modi di impostare e descrivere le idee che la abitano. L’italiano è una lingua sognatrice, slanciata, e nel dipingerla ci si trova spesso sopraffatti dalla sua metafisicità. L’inglese è analitico, diretto, pungente, e nel scriverlo la mente giunge spesso ad un perfetto connubio tra poesia e sintesi.
L’italiano è la tela di un pittore. La sua bellezza e risonanza sta nel fatto di avere la carne e il sangue fatti di periodi virtuosi e travolgenti dove ogni singola parola trova il suo posto, nell’orchestrazione generale del tutto. Tutto ciò fa apparire la lingua di Dante come una danza melodiosa, una sinfonia sussurrata senza sbavature né grossolane incertezze.
L’inglese è una fotografia istantanea. Un fotogramma nell’oceano. La sua dinamicità sta nelle singole parole che con pochissimi suoni sono in grado di rievocare interi romanzi, idee e ricordi.
L’inglese è profondamente erotico, una meretrice di Babilonia agitata, che si dibatte tra le rime del suo scriba analitico, mentre l’Italiano resta un’ amante gelosa che costringe il suo scriba a sedurla e invitarla ad un gioco di scatole cinesi ad incastro.
Entrambe consentono grandi slanci virtuosi ed espressionistici: la prima fotografando l’attimo con una violenta luce sincronizzata, affidandosi alla magia di ogni singolo termine; la seconda pennellando quest’attimo leggermente, con vortici di periodi matematici che, allo stesso tempo, appaiono anche così liberi e irrazionali.