Furto 5 – Gli occhi di Mabel
Sono stati i suoi occhi, gli occhi di Mabel, a rendere tutto chiaro.
Avevo letto la sua storia qualche giorno fa, c’erano delle incongruenze che non mi tornavano. Lei e il fratello, entrambi sostenuti a distanza. Di Mabel avevo foto ed informazioni aggiornate, di Regen non avevo nulla. Ho dato il suo nominativo al responsabile dei pazienti hiv, essendo entrambi sieropositivi, e il 10 ottobre Regen è venuto per l’aggiornamento di sé stesso. Era il 2010 quando la sua foto e la sua storia mi arrivarono per la prima volta a casa. Orfano, sieropositivo, piccolissimo, Regen aveva solo tre anni. Lessi che c’erano anche due fratelli maggiori scappati non si sa dove, probabilmente morti, e una sorella poco più grande di lui, Mabel, che è dovuta crescere in fretta e occuparsi del fratello. In Africa non è raro restare orfani, ma è difficile esserlo quando sei malato. Le madri sono le fondamenta di una casa. Le madri sono riparo e protezione.
E sono stati i suoi occhi, gli occhi di Mabel, a rendere tutto assolutamente chiaro.
Quel 10 ottobre ho provato un’emozione forte, avevo un nodo in gola, ho trattenuto a stento le lacrime. Regen è venuto accompagnato da una bellissima ragazza alta poco più di lui, con i capelli raccolti e il sorriso libero di una bambina. L’ho guardata con attenzione per qualche secondo e non ho riconosciuto in quegli occhi, in quel viso, il volto di Mabel. Iniziamo a raccogliere le informazioni, chiediamo come sta, com’è andato l’anno scolastico, se ancora nutre il sogno di diventare un bravo dottore. Poco dopo ci informa che non vive più con la sorella perché la nonna materna, non avendo le forze di occuparsi di entrambi, aveva convinto lo zio a prendere in casa lui, tenendo solo Mabel con sé. Mabel, la sua assicurazione per la vecchiaia, in una terra dove la pensione non esiste, dove esistono però i figli, i nipoti. Chiediamo ancora le ultime cose, scattiamo la foto da inviare al sostenitore italiano, la foto che mi verrà inviata a fine anno. Prima di congedarli domandiamo di Mabel, la suora che l’aveva incontrata poco prima del mio arrivo ricordava che la piccola aveva pianto per tutto il tempo; lamentava dolori, nausee, effetti collaterali della terapia antiretrovirale che stava assumendo. La cugina ci dice che aveva avuto un calo improvviso delle forze, faticava a camminare e da qualche giorno la nonna l’aveva portata a casa loro perché incapace di occuparsene. Abbiamo deciso di allertare il responsabile dei malati hiv che ha fatto chiamare Mabel e concordato una visita per il giorno seguente.
E sono stati proprio i suoi occhi, gli occhi di Mabel, a rendere tutto assolutamente chiaro.
L’11 ottobre mi trovavo per caso nell’atrio adiacente l’ingresso dell’ospedale. Vedo un uomo alto e magro sorreggere una ragazzina scarna, barcollante, uno scheletro vivente, la riconosco immediatamente. Mi avvicino, trema come una foglia, Mabel viene portata immediatamente nella stanza del pronto soccorso e viene visitata. Febbre alta, malnutrita, pressione bassissima, non smetteva di piangere e tremare. Probabilmente il virus è arrivato al cervello. Mabel racconta di non avere più la forza di prendere le medicine, di non aver assunto le dosi previste negli ultimi giorni, di non volere nulla per la febbre perché non ne poteva più di stare male e di stare male anche per le medicine che dovevano invece farla stare meglio. Mabel non ne poteva più di genitori che muoiono, fratelli che scappano dall’Eritrea, di vivere lontano da Regen, di non avere una famiglia. Ad un certo punto si smette di lottare. Ad un certo punto scegli di non lottare. Il medico dice a Mabel che è necessario ricoverarla e lei scoppia in un pianto disperato, chiede allo zio di non lasciarla in ospedale, non vuole essere ricoverata, si dimena e chiede di tornare al suo villaggio. Mabel piange, piange ancora, le lacrime ingrigiscono ancora di più quel viso così pieno di dolore e sofferenze.
E sono stati proprio i suoi occhi pieni di lacrime, gli occhi di Mabel, a rendere tutto assolutamente chiaro.
La morte spaventa, la morte fa paura, soprattutto quando sei una ragazzina di quindici anni e avresti il sacrosanto diritto di spaccare il mondo. La morte fa paura quando hai già vissuto la disperazione di averla in casa e ti ha strappato le perle più preziose della tua esistenza, i tuoi genitori. La morte fa paura quando l’odore te lo senti addosso, perché sei nato malato, perché sei un predestinato. La morte fa paura quando non hai nessuno che ti sta accanto e ti accompagna nella morte, quando non hai nessuno che ti aiuta a chiudere gli occhi, smettere di respirare, ad immaginare l’oltre, nessuno che ti accarezza il viso e ti dice: “adesso puoi andare, adesso puoi andare bambina mia”.
E gli occhi di Mabel, i suoi occhi, hanno reso tutto schifosamente chiaro.