L’importanza di raccogliersi
Il tabellone della metro conta i minuti che mancano all’arrivo dei prossimi vagoni. Le porte si aprono e vengo fagocitata da odori che si mescolano in parti disuguali. Sento il dopobarba di qualcuno, il profumo vanigliato di una donna che stringe forte il manico in pelle della borsa, l’alone acre di sudore che si disperde senza fare sconti a nessuno. Abbiamo tutti una mèta, un ufficio, una persona che ci aspetta. Corriamo pur stando fermi, aggrappati ai pali di metallo che ci impediscono di cadere. C’è chi guarda l’orologio, lo fulmina con lo sguardo mentre impreca a fior di labbra. C’è chi guarda lo schermo del cellulare e scorre apaticamente la galleria instagram nella speranza di trovare qualcosa che lo costringa a fermare quel dito impazzito e a prestare finalmente attenzione alla vita intorno.
Questa moltitudine troppo colorata, troppo rumorosa mi fa riflettere sulla sacralità del raccoglimento. Raccogliersi, rannicchiarsi, restare soli con noi stessi. Sparire per un po’. Assentarsi per coltivare, innaffiare, curare un orticello che troppo spesso ho lasciato aperto al pubblico, pronto per essere saccheggiato come se ogni filo d’erba si trovasse lì per caso, come se ogni strappo non causasse una rottura più profonda. Uno ad uno i fiori hanno perso i petali, si sono indeboliti, qualcuno ha smesso di crescere.
Ogni mancanza genera il bisogno di raccogliersi, creare una staccionata, proteggere per proteggersi. Ci sono volute zolle di terreno dismesse e un’infinità di steli strappati via per capire che chiudere il proprio orto non è un atto di egoismo, è un regalo. Un’offerta sacra a se stessi, un messaggio di rispetto: “chiudo il giardino che hai tanto amato, che hai coltivato, che hai persino lasciato distruggere. Lo chiudo affinché tu possa realizzare che un ladro rimane sempre un ladro, anche quando entra in punta di piedi”.
Mi chiedo se anche queste persone sballottate come me in un vagone troppo piccolo abbiano imparato a raccogliersi, ad accostare il cancello o se qualcuno stia saccheggiando indisturbato il loro terreno mentre loro corrono da un posto all’altro. Sempre troppo lenti.
“chiudo il giardino che hai tanto amato, che hai coltivato, che hai persino lasciato distruggere. Lo chiudo affinché tu possa realizzare che un ladro rimane sempre un ladro, anche quando entra in punta di piedi”
È il mio tempo, il mio spazio, il mio bisogno di raccogliermi per curare. “Mio” non deve per forza essere egoista, può essere un balsamo indispensabile quando usato bene.
Ci sono voluti anni, ma finalmente ho imparato.