Santostefano, Bresci ha ucciso il Re
La storia, si sa, la scrivono i vincitori. Le sue pagine finiscono sempre più con lo scolorire, man mano che le vicende che narra s’allontanano. Nascono come cronaca: tutti i fatti storici sono stati, al loro tempo, fatti del momento. Si perdono, molto presto, nell’attualità. Si confondono poi con la modernità. Svaniscono, infine, nel fiume in piena della storia, mentre i riflettori s’allontanano, i particolari sfumano, i nomi degli uomini diventano date, cifre, eventi, e perdono ogni traccia d’umanità, facendosi crudo, sterile resoconto.
E’ lì, allora, che i vincitori vincono davvero. Quando scrivono la storia.
Ci sono però categorie di uomini e del pensiero, rari e particolarmente invisi al potere, contro cui il potere può fare ben poco. Gli si possono scagliare contro anatemi, dannarne la memoria, proibirne la circolazione delle opere. Non s’è mai visto alcun potere riuscire. E’ tanto facile far passare sotto silenzio, quanto è impossibile obbligare a dimenticare. L’unico antidoto è il pensiero dominante, accompagnato dallo scorrere dei secoli. I dettagli comunque sfumano, le impronte dei piedi perdono spessore sul terreno. Ma se hai ucciso un Re, il tuo nome sarà scolpito nella Storia per sempre.
“La corte di Milano ha sentenziato. Bresci è all’ergastolo e Umberto al Pantheon. La lotta continua” – Victor Hugo
Gaetano Bresci ha ucciso Umberto I di Savoia. Siamo nel 1900, e un umile operaio tessile toscano cambia con la sua rivoltella il corso degli eventi, facendo da spartiacque nella storia e aprendo la via a corsi che avranno esito nella guerra mondiale prima e nell’avvento del fascismo poi.
La storia dell’uomo termina col suo gesto, col regicidio, e in esso si identifica pienamente, completamente, segnandone la vita. Pare che lì si concretizzi, che finisca così. Bresci ha ucciso il Re. Dieci mesi dopo sarebbe morto – suicida o assai più probabilmente suicidato – nel carcere di Santo Stefano. Ma per la Storia, Gaetano Bresci è e sarà per sempre, soltanto, quello che ha ucciso il Re, quell’uomo e niente più, ed è come se sia morto lì con lui. Tanto grande il morto, quanto piccolo il suo assassino. Diventa così una domanda nozionistica, di quelle che le maestre pongono quando sono in vena di metterti un brutto voto, di quelle che possono valerti un premio in gettoni d’oro al telequiz, di quelle che ti fanno fare un figurone con gli amici in una noiosa serata trascorsa giocando al Trivial Pursuit: “Chi ha ucciso Umberto I di Savoia?” “Gaetano Bresci“. Bravo, sette. L’accendiamo? Come diavolo fai a ricordartene, la prossima volta ti voglio in squadra con noi.
per la Storia, Gaetano Bresci è quello che ha ucciso il Re, ed è come se sia morto lì con lui.
Nel rapporto col suo aguzzino, che lo ammira intimamente disprezzandolo in pubblico si completa la sua vicenda umana, e il tratto più personale e marcato della sua detenzione senza speranza si esaurisce in una velata sindrome di Stoccolma, che lo porta ad intessere col carceriere un rapporto impossibile, col quale però tratteggia insospettabili profili comuni, condannato anche quello dal sistema, e non troppo diversamente dal ristretto che è chiamato a controllare.
Un intrigante spaccato sulla realtà carceraria dell’epoca, in tempi che precedono d’un secolo almeno lo stesso concetto di diritti umani, la cui violazione era feroce e sistematica; ma ancor più un profondo spaccato sulle ultime vicende di un condannato di prim’ordine, la cui vita sembra confondersi col gesto del regicidio, ma che ha avuto dieci mesi di strascichi terreni e profondamente umani che valeva la pena tentare di immaginare, e raccontare, per l’appunto in umana misura, e in maniera peraltro artisticamente davvero ben riuscita.
Le scelte di regia sono precise ed eleganti. L’essenzialità delle scene rende bene la crudezza e il rigore del regime carcerario, e la feroce spietatezza di alcune scene appare un giusto tributo da pagare alla memoria di quello e di quanto effettivamente fu. La solitudine, l’abbandono, la disperazione dell’uomo sono rese con fervore artistico; non c’è spazio per la speranza in quelle condizioni, non c’è orizzonte oltre la disperazione sotto il cielo di Santo Stefano. Laddove la morte sembra essere l’unico possibile epilogo interviene il teatro, secoli dopo, a rendere l’esperienza immortale. Una ricostruzione storica precisa ma anche un modo per scolpire una vicenda umana nella roccia. Per l’uno e l’altro motivo ve lo consigliamo.
Abbiamo visto:
Santostefano
di Antonio Mocciola, per la regia di Livia Berté
Con Leonardo Di Costanzo ed Antonio Polese
al Theatre de Poche di Napoli