Uno per gatto (col resto di due)
Ne posso contare uno per gatto. Quarantaquattro anni, in fila per sei col resto di due.
E se non fosse che questa cosa qui del resto di due mi ha sempre lasciato perplesso, direi che ci siamo proprio.
Hanno pure prodotto da poco un nuovo cartone animato sull’allegra combriccola micesca, che è entrato prepotentemente nella top five dei cartoni più seguiti dalle Gennine.
Quindi la stagione è quella giusta per me, il revival musicale dello zecchino d’oro si è fatto sempre più spazio ultimamente nella mia vita e la mia vita, nel frattempo, è giunta a contare il numero palindromo in questione.
Niente da aggiungere al quadro, vostro onore.
Ma no, non è vero: c’è sempre qualcosa da aggiungere al quadro.
C’è che appena poche ore fa sono stato vittima di un brutto fallaccio da dietro, una specie di tackle da ultimo uomo, di quelli falcia caviglia alla Marco Materazzi nella stagione d’oro del triplete, per intenderci.
Il mio avversario in questione era solo un po’ più pesante e metallico del coriaceo difensore nerazzurro che, oltre al resto, come è risaputo universalmente ha fatto perdere la testa (e anche un mondiale) persino al quasi-serafico monsieur Zinedine Zidane. Ma io, vi assicuro, non ho perso la testa dopo l’impatto. Forse un po’ di dignità sì, ma la testa indubitabilmente no.
Anche semplicemente per la ragione banale che per perdere qualcosa bisogna che prima la si possegga. Ergo… concluderei il sillogismo se solo non fosse così scontato.
Ma ecco cosa è successo esattamente.
Al minuto trentesimo delle sette del mattino di un lunedì come tanti, mi avviavo ad imboccare l’uscita di casa chiudendo il cancello alle mie spalle e parlando di amenità varie con primogenita al fianco, per raggiungere il resto della famiglia già collocatosi nell’abitacolo dell’autovettura gennesca.
Ad un tratto il fattaccio.
Vi confesso in segreto che, come dicono a Palermo in questi casi, unmafirucchiù (trad. noncelafacciopiù)
Non mi era mai accaduto di vedere che un cancello, alto due metri e largo tre, fosse così interessato a bloccare l’avanzata gloriosa di una famiglia per bene verso una nuova settimana di lavoro, tanto da intervenire in modo scomposto sul mio tendine d’Achille e costringermi rotolante sul cortile di casa in preda a convulsioni che nemmeno Neymar ai mondiali brasiliani.
Ma dobbiamo pur ripetere che non si è mai certi di aver visto tutto nella vita.
L’arbitro (alias figlia Grande) sempre molto vicina all’azione è stata costretta ad estrarre immediatamente il rosso, mentre un altro avversario (alias moglie incavolata per il ritardo al lavoro) avvicinandosi cominciava a protestare per la presunta perdita di tempo e per le capriole pretestuose del sottoscritto.
Per farla breve la partita l’ho persa io e vinta mia moglie (come è tautologico che accada) e il medico sociale (alias figlia Piccola) mi ha assegnato amorevolmente due giorni di ghiaccio e riposo: così ho avuto tutto il tempo di pensare ai gatti di cui sopra e anche a quel benedetto resto di due, che ha cominciato a intrigarmi davvero.
Vi confesso in segreto che, come dicono a Palermo in questi casi, unmafirucchiù (trad. noncelafacciopiù).
Questo episodio è un caso esemplare di come in questi ultimi tempi sia quasi costretto a percepire il sadico intervento di un destino bieco e sciagurato che voglia giocare al gatto con il topo. E qui risulta veramente superfluo un’altra volta precisarvi l’identità dell’orecchiuto roditore di cui sto parlando.
Vi risparmio anche, nel dettaglio, tutte le altre innumerevoli magagne da cui da mesi sta tentando di mettere in salvo la coda, ma certo la conclusione di tutto questo fuggire, pur dura da digerire, va presa in serissima considerazione.
I gatti stanno cominciando a diventare veramente troppi per le forze di questa razza di topo Gigio che ho scoperto di essere.
Io provo a metterli in fila per sei, ma rimane sempre quel misterioso resto che tende a spezzare le simmetrie.
Voi mi direte: che esagerato!
Ma voglio proprio esagerare stavolta, perché unmafirucchiù.
Seguitemi in questo elenco impietoso: il lavoro faticoso ma gratificante, la famiglia impegnativa ma spettacolare, la moglie sublime ma sublime, insomma la vita difficile ma bella.
Troppi ma ho già calcolato e quanta energia occorre per tenerli insieme senza mai rotolare lungo distesi.
Sapete che c’è?
Reclamo una volta tanto il diritto a protestare, così tanto per sport.
Me lo suggerisce financo la moglie sublime (e appare sincera), che tanto approfonditamente conosce e pratica cotale sublime arte della protesta.
Sarà che ho proprio bisogno di far pascolare liberamente la mia psiche sui prati dell’incoerenza e della fantasia per evitare che, una volta per tutte, quell’inconscio stressato scateni la propria vendetta su ciò che rimane funzionante della dotazione corporea di cui ancora dispongo.
E pascolando pascolando mi accorgo di volere strappare il resto di due dalle mani del destino felino, spernacchiare tutti i rimanenti gatti del vicinato, prendere il volo verso lidi ulteriori e sconosciuti, inimmaginabili, immaginifici.
Ho proprio una voglia tremenda che la vita mi sorprenda con semplici mosse, cancellando ogni fatica del mettere insieme, ogni patimento dell’amare, ogni sconforto del lottare.
So che tutto ciò è praticamente impossibile, che lotta senza attimi di sconforto, amore senza patire, unità priva dell’impegno faticoso che ci vuole, tutto quello che desideriamo senza lo struggimento del desiderare semplicemente non può avere esistenza.
Ma reclamo il mio diritto imponderabile alla protesta.
Reclamo il cartellino rosso per chi mi falcia in scivolata.
Per conto mio prometto di non perdere la testa (ove mai si palesasse) e ancora, cosa che mi sembra più importante, di tentare fino in fondo di rimanere in campo lottando come un matto, per quello che riesco.
Che vincere un mondiale per me è cosa di contorno, ma se viene, tanto meglio e festeggiamo.