Don Giovanni, che cos’è l’amor
Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
un catalogo egli è che ho fatt’io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicentoquaranta;
In Alemagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
Don Giovanni non lascia mai indifferenti, così come il mito dell’inesausto seduttore senza scrupoli che il personaggio incarna, assurgendo a eroe della vita loca e dissoluta, e trovando devoti seguaci in ogni tempo e luogo, da Casanova a D’Annunzio, da Giasone a Baudelaire.
Vorremmo, noi uomini, tutti, senza distinzione, essere al suo posto, a collezionare un cuore dopo l’altro e a incidere con innumerevoli tacche l’asta dell’amore, ebbri di lussuria e di voglie sensuali, inesauribili e mai sopite. Come se l’amore bastasse a se stesso, come se d’amore soltanto si potesse vivere. Ma se i grandi seduttori si lasciano alle spalle codazzi di cuori infranti, se pure le loro vite assurgono al mito, in fondo la loro sete d’amore si giustifica sol perché i loro cuori sono bucati e, non avendo fondo, nemmeno possono essere riempiti. La loro passione non è che un faro artificiale acceso sul pozzo, a illuminare il vuoto.
la maledizione dei seduttori, in pratica, è lo stesso amore.
Una bulimia sentimentale particolarmente vivace in Don Giovanni, così come ben rappresentato nell’adattamento in prosa di Gianmarco Cesario – in scena al Tram di Napoli – per il progetto PopOpera, che intende avvicinare i giovani all’opera lirica attraverso testi resi più attuali e arrangiamenti musicali contemporanei.
Un Don Giovanni, si diceva, che non lascia indifferenti, intanto per la commistione di genere, estroversa e geniale, che rende attuale l’opera e la ridisegna in chiave moderna; poi perché provoca e disturba con la sua ironia, offrendo uno spaccato per quanto possibile inedito del libertino, di uomo dall’apparenza cinica ma che in fondo non fu mai felice, che visse da impenitente e da impenitente morì. Infine, ma solo per il vezzo di collocare in fondo i punti di maggior pregio, per la caratura artistica di tutti, tutti, gli attori, che da assoluti padroni della scena non permettono a nessuno di toglier gli occhi di dosso.
Evidenti nella scrittura i riferimenti tanto a Da Ponte che a Molière, cui se ne deve l’immagine spavalda, intimorata di Dio, atea e illuminista ante litteram e irriverente fino alla sfida suprema del giustiziere celeste. La sottile crudeltà con cui Don Giovanni invece tratta le sue conquiste è figlia invece di una certa misoginia, giustappunto appena velata, dovuta assai meno al francese, e assai più a Mozart e Da Ponte.
Si vede in questa riscrittura in prosa il narcisismo all’opera, quasi incarnato nel personaggio: perché se è vero che non tutti i narcisisti sono seduttori, è parimenti innegabile che tutti i seduttori sono giocoforza narcisisti. Ed è nel narcisismo che si compie il destino fatale di chi si prende gioco di Eros, di chi imbriglia l’ars amandi nella rete di un gioco di potere, qual è la seduzione.
Come sempre nel Flamenco, sulle cui sonorità sono state arrangiate da Pasquale Ruocco le musiche di Mozart, si finisce sempre in dannazione, così da protagonisti, altrettanto da spettatori.
Ci piacciono le dannazioni. Ve lo consigliamo.
Abbiamo visto:
Danilo Rovani in: Don Giovanni
da Tirso de Molina, Moliere e Lorenzo Da Ponte
musiche di Mozart arrangiate ed eseguite dal vivo da Pasquale Ruocco
Regia e drammaturgia Gianmarco Cesario, Aiuto Regia Luca Lombardi
con Diletta Acampora, Denise Capuano, Luca Lombardi e con la partecipazione di Enzo Attanasio
Scene e costumi Melissa Di Vincenzo Riprese video Antonio Lombardi Foto Nina Borrelli
Ancora dal 30 gennaio al 2 febbraio 2020. Si ringrazia l’Ufficio Stampa.
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