Carta straccia
Quando ero bambino buttare carte a terra era normale. Eravamo pieni di spazzatura, eppure era meno di quella che si vede oggi per strada. All’epoca tutti sapevano delle discariche abusive, dello smaltimento illecito, ma nessuno chiamava roghi tossici gli ammassi di monnezza dati alle fiamme. Quel fumo nero non era trattato diversamente da quello delle erbacce bruciate dal contadino. Qualche cretino avrà pure pensato che così risolvevamo il problema.
La raccolta differenziata non esisteva. Ricordo ancora il giorno in cui fu introdotta a casa mia, fu una rivoluzione. In realtà, più che di un solo giorno bisognerebbe parlare di settimane di duro apprendimento per tutta la famiglia, impegnata a discriminare tra la carta pulita e quella sporca di olio, tra la plastica riciclabile e quella non riciclabile, tra umido e indifferenziato, busta gialla e busta nera. Si allontanarono improvvisamente, da un giorno all’altro, i tempi in cui bastava dire “vai a buttare la spazzatura” per essere compreso. Prima non si poteva sbagliare, la busta era una. Con l’avvento della differenziata, invece, a questa domanda seguiva una disamina del calendario sempre affisso alla lavagnetta in cucina per vedere cosa si butta in quale giorno.
Però ci siamo abituati, nonostante tutto. Soprattutto nonostante quelli che dicevano che fare la raccolta differenziata era inutile, tanto poi alla fine i rifiuti finivano tutti quanti nello stesso cassonetto o nella stessa discarica. Perché è così che funziona quando vuoi sottrarti ad un dovere e al giudizio negativo che ne conseguirebbe: basta inventare una fesseria secondo cui adempiere a quel dovere è del tutto inutile. Grazie ad altri campioni di responsabilità e senso civico la fesseria diventerà presto una voce di corridoio e il gioco è fatto: tana libera tutti.
In ogni caso ho ancora nitidi ricordi in cui da bambino scaraventavo al suolo con grande soddisfazione residui cartacei di ogni tipo. Scontrini e fazzoletti opportunamente appallottolati, come se ci fosse un criterio estetico a cui rapportarsi. Era un’emozione, seppur insignificante. Un liberarsi di ciò che non serve più con un gesto semplice, la speranza di potersi buttare alle spalle con facilità ciò che nella nostra vita era solamente di ingombro. Una modalità di risoluzione dei problemi cinica ed efficace che non ammette sfumature di grigi: ora sei un qualcosa in mio possesso, ora sei carta straccia.
E in nome di questo diritto, che si potrebbe sintetizzare come il “diritto a non incontrare ostacoli sul proprio percorso”, si parcheggiava davanti ai cancelli delle case, in strada in doppia e tripla fila, nei posti riservati ai disabili, si saltava la fila alla posta. Ci calpestavamo i piedi gli uni con gli altri. Se non lo facevi venivi calpestato da tutti gli altri, sorreggendo il peso di un costante senso di impotenza e le molteplici prevaricazioni subite con l’orgoglio di essere rimasto l’essere umano che volevi essere. E se sia abbastanza o no, temo non lo sapremo mai.
Ma erano altri tempi quelli, adesso non è più così. Ne sono sicuro, l’ho sentito alla tv.