Ruote panoramiche (feat. inverno)
Era mattino e pure inverno. Domenica, per quanto mi ricordi. Se non era domenica era sabato, comunque. E faceva freddo, uno di quei freddi padani che qualcuno dice che è colpa dell’umidità e qualcun’altro sì, però di gradi ce ne sono pur sempre pochi. Mangiare, lavoro, buon calcio. Però il clima. Quando si parla di Parma va sempre a finire così: una sbrodolata di lusinghevoli luoghi comuni e poi qualcuno tira fuori il clima. I volti cambiano, il dubbio si insinua nelle bocche degli astanti. Le fighe di legno, allora? Che piuttosto che sganciartela crepano con le ragnatele. E prendila una casa in affitto a Parma, se ci riesci. Gli spacciatori? Ah beh, quelli si che comandano in città. Va bene così, dai. Lasciamo perdere. Mi ero spinto a piedi fino al parcheggio del centro commerciale. Era pressoché vuoto. Silenzioso, anche. In mezzo al parcheggio la ruota panoramica completava i primi giri della giornata. Vuota.
Erano le prime ore del mattino e un timido sole penetrava la cortina di umidità e si riverberava ovunque vetro e metallo glielo permettessero. Ma lo faceva con discrezione perché, appunto, era un sole timido. Un gatto steso a terra inarcava la schiena per aumentare la superficie della pancia esposta al sole. Avesse potuto, avrebbe pure srotolato l’intestino al sole. Ma dopo un paio di minuti iniziò ad alzare la testa di continuo, contrariato, infastidito. Il sole non bastava, non più. I gatti sono una roba tipo i cocainomani, non ne hanno mai abbastanza di niente. Gli scende sempre tutto e in fretta, ai gatti. E quando gli scende se ne vanno a dormire e vaffanculo a tutti. Cocainomani. Una radiolina gracchiava pubblicità. E la ruota panoramica, davanti a me, cigolava. Talvolta il rombo di un’auto. Questi erano gli unici rumori della mattina. Canticchiavo Mind game di John Lennon. Senza emettere decibel alcuno. Come quando vengo, che canto un motivetto nella mia testa e nessuna, forse, se n’è mai accorta.
Quando sei bambino la ruota panoramica ti viene sempre concessa. Con cinque euro vedi tuo figlio sorridere. Ci sta. E non c’è pericolo di perdere pomeriggi al pronto soccorso, per giunta. Quando sei adolescente la rifiuti, perché se una cosa la facevi da bambino e ti rendeva felice, da adolescente non la puoi più fare, altrimenti avresti un’adolescenza felice e questo sarebbe davvero insopportabile. A vent’anni ci vai con la prima morosa e un po’ ti vergogni perché in fin dei conti sei ancora adolescente e un po’ sei felice perché la vedi sorridere come tuo padre vedeva sorridere te. Ma molto meno disinteressato di tuo padre, anche questo va detto. Poi ti lasci e non ci vai più e anzi la schifi proprio la ruota, come tutte le cose che ti ricordano lei. Insomma, è un po’ come nell’arte: quello che oggi ha stufato domani vien buono e dopodomani si torna a oggi e così via. La ruota, poi, è pure ciclica di per sé. Ok, mi sono guardato intorno e oltre al gatto insoddisfatto e all’uomo della ruota non c’era altra forma di vita. Poi non ero mica più adolescente, quindi potevo anche andare. L’uomo della ruota se ne stava seduto in una pagoda bianca con schizzi di terra, pioggia acida, frullato al melograno che la faceva sembrare la prova artistica di uno che “un quadro di Pollock lo so fare anch’io” e no, il risultato non è lo stesso. Un termosifone portatile sparava addosso uno sterile e insincero calore. Era un po’ timido anche lui, il termosifone. Non è facile, del resto, giocare in trasferta su un campo così ostile. Quando poi in estate potresti giocare sempre in casa, ti mettono via. Vita di merda, quella del calorifero. Bisogna dirle queste cose. Solamente gli occhi dell’uomo erano scoperti e gli occhi guardavano me e io guardavo un po’ loro e un po’ la ruota panoramica. La radiolina era roba sua. Di lui non seppi altro. Nemmeno che voce avesse, perché non la usò. Pagai. Mi accompagnò alla pedana d’ingresso, testa bassa, intirizzito dal freddo, si assicurò che i meccanismi di protezione fossero tutti ok e tanti saluti, ci vediamo quando scendi. Forse.
A trenta metri di altezza non cambia nulla. A cento, magari, ma a trenta metri ci sono balconi che ancora ti mangiano in testa. Però fa più fresco, o meglio, c’è più aria. Un’impressione, magari. Basta cambiare qualcosa e la mente si fa più recettiva. E finisce per prendere peri per pomi. Che poi alla fine vuol solamente fare bella figura, la mente, come quando si interviene su un argomento per far vedere che si è sul pezzo e tutti si accorgono che più che l’erudizione quello che volevi mettere sul tavolo è il tuo diritto a esistere in quel luogo e in quel momento. Lo lo lo lo Lola Coca Cola. Adesso ero all’apice della ruota e avevo in mente questa canzone dei Kinks. Guardavo le finestre del quarto piano nei condomini attorno al parcheggio, ma vedevo solamente il riflesso della ruota. Peccato. Edward Hopper, il pittore, dipingeva le istantanee di vita quotidiana che rubava guardando dentro le finestre degli appartamenti mentre viaggiava sulla sopraelevata di New York. Lo avevo letto in un libro di arte. Mi sembrava una figata, una intuizione della Madonna. Ora però ci credevo un po’ meno. E mi pareva piuttosto una stronzata per riempire un paragrafo. Poi la ruota iniziò a scendere e questo non è mai bello. Si, talvolta occorre dare ragione pure ai gatti: quando le cose scendono la sensazione non è mai piacevole. Poi però ha ricominciato a salire e allora tutto era molto più bello, perché mi aspettavo un solo giro e mi ero impegnato più a pensare a quanto mancasse alla fine che non a godermi il presente. Un giro in più. Come se dopo una vita inutile e merdosa ti dicessero: vabbé, dai, rifai un giro di sotto. Ma per stavolta, eh. Non ci fare l’abitudine. Ah, che bello salire dopo essere scesi. Dove sei ora, gatto? Lo cercai con lo sguardo. Era ancora steso. Mosse la testa. Niente, non c’era requie per lui. La discesa ora faceva meno paura. Tutto sommato, non si era viaggiato per niente. Ma il destino aveva in serbo un terzo giro. Addirittura un terzo giro. Chi poteva immaginare?
L’uomo mi salutò con un cenno della mano. Dove c’era il gatto ora era ombra. Mi pareva di vederlo alzarsi scoglionato e cercare un altro posto al sole. Sole, tranquillità, poco rumore. Mica facile. Quando inizia la discesa, non sai mai se e quando ricomincerai a salire. Poi si, magari ricominci davvero ad andare su e ti dai pure del coglione per avere avuto un momento di scoramento. E guardatelo ora, questo povero gatto, la testa bassa e la coda tra le gambe, camminare incerto senza sapere dove dirigersi per trovare quel calore il cui povero ventre brama. Guardatelo e ditegli che è un povero stronzo, che deve avere fiducia nel parcheggio del centro commerciale, che un posto dove riposare le terga, tutto sommato, lo si trova sempre. La mattina si stava animando. Più macchine, persone, rumori. Una padre saliva sulla ruota con il figlio. Il bambino sorrideva, il padre pure. Poi sarebbero salite giovani coppie, mentre adolescenti e amanti delusi avrebbero sputato ai piedi della ruota. E i frullati sulla pagoda e la pipì dei cani, pure. Fino a sera e poi ancora, il giorno dopo. E quello dopo, anche.