Furto 3 – Il convento di clausura
Quel giorno Monica mi disse che saremmo dovuti andare al convento delle suore di clausura per discutere di cose molto delicate, e uno strano aggrovigliamento di budella ha iniziato a farsi spazio.
Innanzitutto perché ogni qualvolta Monica utilizzava la frase discutere di cose molto delicate ci ritrovavamo in posti assurdi con gente assurda a fare cose assurde. Penso a quando andammo in ambasciata a discutere di cose molto delicate e finimmo per essere rinchiusi dentro una stanza con una guardia armata all’esterno in attesa di essere identificati come turisti e non come spie di un governo non ben specificato. O ancora quella volta in ospedale, stavo raccogliendo gli aggiornamenti dei sostegni a distanza e mi sono ritrovato da solo in balìa di due donne in preda alla collera che non risultavano nell’elenco da me in possesso, perché Monica si era assentata per andare nella capitale per discutere di cose molto delicate. A questo aggiungiamoci che l’idea di varcare le porte di un convento di clausura francamente non mi allettava affatto.
Ma arriva oggi.
Oggi arriviamo in questa zona della città che non conosco. Sembra periferica ma io sono disorientato nel tempo e nello spazio e forse ci siamo già passati in precedenza. Parcheggiamo il fuoristrada, scendiamo. Monica bussa alla piccola porta di metallo del convento, c’è un silenzio tombale. Nella casa accanto vedo una signora farsi spazio fra i panni stesi, e con sguardo indagatorio cerca di capire cosa ci fanno due bianchi lì. Apre una giovane ragazza in borghese e senza neanche chiedere chi siamo ci fa entrare nel piccolo atrio interno che è ancora esterno. Dopo qualche attimo scompare dietro un’altra porta di metallo proprio di fronte a noi. Osservo questo spazio, servirà per non far vedere agli ospiti cosa accade all’interno del convento, un primo filtro fra il mondo e la clausura. Passa qualche secondo, la ragazza di prima apre un’altra porta sempre di metallo ma questa volta alla nostra sinistra, e ci fa segno di entrare. Ci chiude dentro, letteralmente. All’interno un tavolo e due sedie, la porta dalla quale siamo entrati e un’altra perfettamente identica alle altre. Io e Monica rimaniamo in piedi quasi ad aspettare l’ennesimo permesso da parte di qualcuno che improvvisamente farà il suo ingresso, la ragazza, una suora, mi aspetto anche il Bianconiglio. Qui le pareti sono spoglie, c’è solo un poster con dei fiori rosa spiegazzato agli angoli. Passa ancora qualche attimo, sentiamo dei passi. Chissà dove ci faranno andare adesso, sembra di essere in una escape room.
Entra una suora, la suora di clausura. Minuta, in carne, avvolta in un abito nero, ai piedi dei sandali marroni con dei collant pesantissimi leggermente usurati sulle dita, sul petto un crocefisso troppo grande per lei, un velo nero avvolge un viso inaspettatamente bianco. Avevo dato per scontato che dovessimo discutere con una suora dalla pelle scura visto che ci troviamo in Africa e invece mi ritrovo una monaca di clausura dal viso bianco che si mostra senza grata. Sarà che di monache non ne capisco un piffero, sarà che la clausura in Africa funziona diversamente, fatto sta che la vedo, è di fronte a me in carne bianca ed ossa.
La suora mi saluta, mi stringe la mano, ha un sorriso magnetico, avrà almeno ottant’anni. Chiede il mio nome, non credo sia davvero interessata a saperlo. Mi invita a sedermi, mi siedo. Poi passa in rassegna Monica, la prende sotto braccio e scompaiono insieme dietro l’ennesima porta di metallo.
Rimango qui, da solo.
Ma il tempo delle perplessità dura poco perché vedo tornare la ragazza di prima accompagnata da altre due ragazze, anche loro in borghese. Iniziano ad apparecchiare: un tovagliolo, una forchetta e un coltello, un bicchiere, due piatti, uno fondo e uno piano, dell’acqua in una brocca, una bottiglia di Fanta, una di Coca Cola, scompaiono.
Deduco che debba bere, o quantomeno è quello che si aspettano, anche se non capisco la necessità di portarmi anche delle posate. Faccio per prendere la brocca ma mi ritraggo immediatamente perché sento nuovamente i passi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Questa volta portano del cibo: pane, un piatto di pomodori, cipolle, cetrioli, dell’insalata in una ciotola, lenticchie al pomodoro, una teglia con patate al forno, carne stufata, carote e piselli bolliti. Sono scioccato. Non tanto dalla quantità di cibo o dalla velocità nel portarlo, non tanto dal silenzio nel compiere tali azioni o dall’inaspettata situazione, quanto perché sono le cinque del pomeriggio ed io oggi ho finito di pranzare alle due e mezza. Ringrazio, in italiano ovviamente. Capisco che non capiscono perché rimangono impalate davanti a me. Ringrazio in inglese, sorridono a stento ma restano ancora congelate. Provo a ringraziare nella loro lingua ma credo mi sia uscito dalla bocca l’equivalente di un buongiorno. Sono ancora qui, davanti a me.
È una situazione fra il comico e il grottesco. Probabilmente devo iniziare a servirmi, mi avvicino alle verdure fresche, ma non faccio in tempo perché uno dei Re Magi mi serve riempiendomi più di tre quarti del piatto. Si accorgono che non c’è il necessario per condirle. Melchiorre con un cenno quasi impercettibile fa fuggire Gaspare. Nel frattempo per far passare la cosa inosservata e sentendomi quasi inghiottito in questa commedia dell’assurdo, faccio per versarmi dell’acqua ma, con fare felino, Baldassare prende la brocca e riempie il bicchiere. Mi sembra di essere in Sicilia con mamma che mi mette sette polpette nel piatto nonostante io le dica di volerne due preoccupata che perda anche un solo etto, e nel tentativo di ribellarmi lei, con una terza mano di cui disconosco l’esistenza, mi rinfilza una bistecca di almeno mezzo chilo. Nel frattempo Gaspare è tornata con olio, aceto e sale. Condisco, ci metto anche il sale che generalmente non uso, così, sempre per far piacere a loro, come se il mio gusto fosse sensorialmente collegato alle tre ragazze.
Torno subito, devo andare a discutere di cose molto delicate
Loro sono ancora lì.
Mi arrendo. Per qualche attimo dimentico di essere in un convento e di esserci venuto con Monica, sono qui per recensire questo locale quindi mi tocca magnà, e così faccio. Per circa quaranta minuti ingerisco il corrispettivo del cibo che solitamente mangio in tre giorni, solo allora si arrendono. Dicono qualcosa nella loro lingua. Mi limito a sorridere moderatamente, ogni piccola azione in più può farmi vomitare anche dal naso. Escono portando miracolosamente con loro tutto ciò che c’è sul tavolo. Ma quante braccia hanno? Allora davvero sono mia madre. Apro il bottone del pantalone, rilasso la pancia, respiro perché mi sento ancora del cibo che deve andare giù.
Ma avviene l’inaspettato, l’inimmaginabile, l’apocalisse.
Portano il dolce.
Ho quasi voglia di piangere, non credo di potercela fare. Loro sono sempre fin troppo carine ma anche fin troppo presenti, cazzo andatevene.
Finalmente arriva Monica seguita dalla suora di clausura, ho istinti animaleschi. Ma sorrido, a denti stretti per la questione del vomito, ma sorrido.
La suora fa cenno alle tre ragazze di andare via, e loro che fanno? Vanno via. Solo con un cenno. Io ho tentato di parlare tre lingue diverse e invece bastava solo un cenno.
Monica si avvicina e mi dice che deve assentarsi un paio d’ore per andare a discutere di cose molto delicate. E ti pareva!
La suora accompagna Monica all’uscita. Rientra, mi chiede se voglio della torta. Ringrazio, ma rifiuto. Credo mi sia uscito anche un rutto. Mi domanda di nuovo il nome, questa volta lo sente davvero. Mi chiede di seguirla, Monica le ha detto che mi piace ascoltare la vita delle persone ed ha voglia di raccontarmi la sua, sempre se me la ricordo, dice.
Ma questa è un’altra storia.