Tre volte Londra
La prima volta non c’avevo la barba. I capelli. Si, i capelli ce li avevo e li tiravo su con il gel. Era la moda di fine millennio. Ma non ero mai soddisfatto dell’acconciatura, perché una volta pendevano di qua, un’altra di là. Il fatto è che erano fini e non avevano forza. E poi, in generale, io non sono nato per essere soddisfatto. Avevo un paio di basette, belle. Quelle non erano moda. Volevo solamente diversificarmi un po’. Le basette ce le avevo io. Quello con le basette. Quello con le basette me lo farei, speravo dicessero. Magari qualcuna lo ha anche detto. Nell’aeroporto di Heathrow un pannello luminoso alternava la pubblicità al risultato della finale del campionato del mondo che si stava disputando oltre Manica. Francia 3 Brasile 0. Se Parigi esulta, Londra fa spallucce. Questo dalla notte dei tempi.
“Era scontato” mi disse un compagno di viaggio di cui fino a tre ore prima ignoravo l’esistenza. Per me non era per nulla scontato. Il Brasile, comunque, era pur sempre il Brasile. C’era Ronaldo. E Rivaldo. Mi grattai una basetta e risposi “Si, era nell’aria che finisse così”. Avevo 15 anni e un passato riassumibile in mezza paginetta di quaderno a righe grandi di cui, tra l’altro, non andavo troppo fiero. Perciò inventavo un sacco di balle su cose che non erano mai accadute. Che tanto nessuno mi conosceva nel college. E poi quella gente cominciava a prendermi davvero bene. Oh cazzo, ero a Londra senza i miei genitori. La Francia aveva appena vinto il mondiale. Potrei dire non avessi un’idea precisa di chi fossi, cosa volessi. Nemmeno di cosa mi piacesse. Non avevo particolari passioni oltre il Parma calcio, a essere sincero. Ma lo dico a posteriori. Perché in pratica ero lì. Ero una risma di carta bianca. E fuori c’era un grosso pennarello a forma di Big Ben. Tornai con una musicassetta dei Prodigy e un gran sonno arretrato. Fondamentalmente, per la prima volta io Ero. London ergo sum.
La seconda volta la barba ce l’avevo. Pure le basette c’erano ancora. I capelli iniziavano a diradare, invece. Niente più gel, quindi. Mi ero appena laureato. Avevo un sacco di tempo per girare a zonzo in quel di Londra. Qualche sterlina per un paio di birre qui e là. Quando le gambe cedevano ai ritmi infernali delle mie camminate tra Whitechapel e Westminster mi fermavo in un pub, mi sedevo su uno sgabello e ordinavo una pinta. E poi facevo i cerchi con il bicchiere sul bancone e facevo lavorare la testa mentre albionici lavoratori conversavano nei tavoli accanto. Avevo tanto di cui pensare. C’erano un paio di cose da dimenticare e ovviamente erano quelle a cui pensavo maggiormente. Spulciavo London A-Z e meditavo di andare nei quartieri che portavano i nomi delle squadre di calcio. Fulham, West Ham, Tottenham, Crystal Palace, Chelsea. Charlton, pure. Era un buon espediente per spostare la mente, oltre che le terga, altrove. Credo di averli visti pressoché tutti. Quando ero bambino guardavo le sintesi delle partite del campionato inglese su Tele+. Ero affascinato da quegli stadi. Quante squadre ci sono a Londra? Potrei dire che un’epoca della mia esistenza, nel 2008, era finita per sempre. Che occorreva girare pagina, che un paio di capitoli li si era scritti e qualcosa di interessante s’era detto e fatto, ma bisognava buttare giù qualcosa di nuovo. Solo che nella vita la carta talvolta sa essere spessa, pesante. Un alito di vento quando la pagina non è ancora girata del tutto e si ritorna indietro. E io continuavo a tornare indietro. Anche questo è un discorso a posteriori. Di certo c’è che anche allora la mia testa era un po’ a Fulham e un po’ a quello che avevo lasciato in Italia. I cerchi con il bicchiere. Le pagine scritte, quelle ancora da vergare. Tornai con un poster di un’opera di Bansky e la metro di Londra imparata a memoria.
La terza volta capelli e basette sono andati. I primi per sempre, le seconde chissà. Il gel non lo compro da quindici anni e comunque non va più di moda. Quanto costa un tubetto di gel? Poco, credo. Che poi magari domani inventano una pastiglia che fa ricrescere i capelli e allora chissà. Ne sarei contento? Si, certo. Soddisfatto? No. Semplicemente mi sposterei su altri problemi. Non sono nato per essere soddisfatto. Si lo so, l’ho già detto. Ci sono così tante cose per cui non essere felici. Basta spostare il dito. Come a Londra. I quartieri su cui puntavo il dito dieci anni fa sono passati dall’infamia alla lode, dalla lode al dimenticatoio. Le squadre hanno mantenuto il nome del quartiere, ma lo stadio lo hanno smantellato e costruito altrove. Il Big Ben è ad oggi un’impalcatura e i giapponesi fotografano l’altro lato del Tamigi. Accanto a Westminster un gruppo di indiani protesta per un crimine di cui nessuno ha fatto notizia in Occidente. I suonatori di strada accettano le offerte con il bancomat. Avvicini la scheda e ti viene scalata una sterlina. Le nuvole corrono sempre veloci. Che le segui con un dito e se non fosse che il vento dell’oceano non è per niente caldo sarebbe anche divertente. Ho tardato un anno, Londra. Sarei dovuto tornare nel 2018, lo so. Forse hai ragione tu, ho buttato un anno un po’ così. Però lo sai, io con il futuro non ci so fare. Talvolta anche con il presente non mi ci raccapezzo e magari la prossima volta parleremo di questo 2019 diversamente. Ciò detto, hai visto con che pacco di fogli già scritti sono atterrato? S’è fatto un bel tomo, non credi? Ora ci sarebbe da capire che farne di tutta questa carta e inchiostro. E quanti fogli sono rimasti? E il toner? La fotocopiatrice, Londra, preferirei non usarla. Sono tornato a casa con un cappello da Babbo Natale che qualcuno mi ha messo in testa in un pub a Camden Town e un gran mal di piedi.
Una notte ti ho sentito sussurrare. Ci ho messo un po’ a capire che eri tu perché gli spagnoli russavano e facevano un gran casino. Che la tua testa corra sulle mie nuvole, mi hai detto. Dall’Oceano al Mare del Nord. And far away. See you soon, mate. Non mi hai dato un bacino. Non siamo avvezzi a queste cose, noi. Però ho sorriso. Tu lo sai: è già qualcosa.