Furto 1 – L’Attesa
È nell’attesa che la speranza nutre il desiderio, e io ho sempre odiato l’attesa; mi mette una strana agitazione addosso, probabilmente per le aspettative che mi creo, per le immagini, i suoni che plasmo a mio piacimento, a mia rassicurazione, e che poi puntualmente non vengono soddisfatti. Non c’è nulla di rassicurante nell’attesa.
L’Africa è la terra dell’attesa, la terra degli eterni cammini.
E sento. Credo proprio di sentire.
È il momento dell’attesa.
È il momento dell’attesa.
Ha il passo leggero, i tonfi sono meno tonfi dei miei, forse è un bambino. Mibatteilcuore tutumtutumtutum.
Sento il suo odore adesso, è speziato, sa di cardamomo, o forse di cannella.
Una donna, la guardo passare; ha i capelli intrecciati a partire dalla fronte, un grande velo bianco li avvolge, li contiene, li limita; l’abito lungo nasconde forme abbondanti, danzanti; i piedi protetti da sandali vecchi, sporchi, che di strada ne hanno vista tanta. È così elegante.
Mi mantengo a distanza, osservo le sue movenze, i suoi piedi ancora e mi adeguo al passo. Iniziamo a ballare.
Continuo a guardarla, zoppica un po’, sento fastidio alla gamba.
La terra diventa asfalto, il passo cambia, il suono pure, la donna sembra non accorgersene.
Mi distraggo, c’è altra gente adesso intorno a noi. Torno subito da lei, per un attimo ero di nuovo io; risintonizzo il passo, dirigo lo sguardo alla nuca, non esiste null’altro.
Saliamo delle scale, la donna si siede. Sono il suo specchio.
Ora posso vederle il viso.
Si gira, mi saluta; mi giro, la saluto. Siamo specchio.
Dei solchi profondi le disegnano il viso, ma solo vicino agli occhi, come se avesse pianto, come se l’acqua avesse scavato la roccia. Sono la sua storia.
Ha le mani da madre, uno sguardo vigile e smarrito, sento la sua stanchezza, la sua sofferenza.
Mi giro, guardo avanti, ho bisogno di tornare me per qualche attimo, il petto contiene a stento i battiti.
Siamo in una chiesa, forse sta pregando, o semplicemente parlando. Muove la testa, scuote le mani, chiude gli occhi, li stringe, porta le mani davanti alla bocca, implode.
Non c’è nessuno, siamo lei ed io. Siamo lei.
Dei solchi profondi le disegnano il viso, ma solo vicino agli occhi, come se avesse pianto, come se l’acqua avesse scavato la roccia. Sono la sua storia.
Ha le mani da madre, uno sguardo vigile e smarrito, sento la sua stanchezza, la sua sofferenza.
Si alza, mi alzo.
Mi saluta, la saluto.
Inizia a camminare, inizio a camminare.
Lei mi lascia. Torno me, torno io.
Mi siedo sulle scale, non so come tornare a casa.
Odoro la mia pelle, sa di cardamomo, o forse di cannella.
Ho sempre odiato l’attesa.