4 – Pelucchi
Vi porto qualcos’altro?
Il barista interruppe il nostro pericoloso discorrere che stava tendendo al passato.
Ma ti ricordi della prima volta che siamo stati a letto insieme?
Certo, che me lo ricordavo. Ma avevo impresso con maggiore profondità nella mente la prima volta che non finimmo a letto insieme.
Tutto quello che poteva succedere, era successo. Sul letto a fianco a me non c’era nessuno, e non ne ero stato sicuro prima di tastare il materasso; dalla capacità della luce di entrare dai balconi chiusi dovrebbero essere state le dieci del mattino. Aprii gli occhi del tutto, cercai di sconfiggere quel che restava della notte, pur sapendo che il suo strascico sarebbe durato per tutto il giorno.
Tutto quello che poteva succedere, era successo.
Quella di prima era stata una giornata inusuale per festeggiare: il primo di dicembre cadeva di mercoledì. Mi alzai, allungai le braccia verso il soffitto e andai in bagno: non ero in condizioni pietose. Me ne rallegrai. Mi scrutai allo specchio, occhi rossi e un poco incrostati, mi sciacquai il viso. Il termosifone era acceso e toglieva quella fastidiosa patina di freddo che ti assalta non appena ti levi dalle coperte. Mi sedetti sul cesso e pensai che anche quella volta, come la strafottuta stragrande maggioranza delle volte, le carte che avevo giocato erano state troppo alte. Avrei dovuto rischiare di meno.
Di lì a breve mi sarei levato dal tessuto sociale di Roma come un pelucco si toglie via da un vestito. Io sono un pelucco che si appiccica a mò di gatto sulle palle, anche se penso che nessuno abbia mai provato quella sensazione. Questo è sempre stato il mio fattore positivo più grande e anche quello più negativo. Riuscivo a conquistare vette inenarrabili grazie alla testardaggine e sempre grazie a quella riuscivo a perdere tutto. La forza che abbiamo dentro di noi è pericolosa se data in mano ai testardi: non si sa mai quando e dove possa finire il loro tiro. Per questo meglio, per gli altri, agire con più prudenza, e contrattaccare.
Io portavo il vino, di solito, a queste cene. E lei mi portava a letto.
Margherita aveva portato due casse di birra e due casse per la musica. Aveva dei gusti musicali di livello alto, metteva le cose che si sarebbero ascoltate nelle radio cinque o sei mesi dopo. Kamasi Washington credo lo abbia scoperto lei, o giù di lì. Lavorava per una radio indipendente, aveva gli occhi azzurri e la erre moscia. Faceva una pasta all’amatriciana deliziosa. Io portavo il vino, di solito, a queste cene. E lei mi portava a letto. Ma non quella sera. Forse sarei rimasto lì, se fosse successo.
(eg)
Certo che me ne ricordo. E anche della seconda, della terza, credo di tutte, se faccio uno sforzo. Ma non ho mai capito cosa ti piacesse di me, allora.
Anche io dovevo piacerti, sorrise con malizia da bambina cresciuta, rigirando il cucchiaino negli ultimi grumi di cioccolata rimasti in fondo alla tazza.
Nient’altro grazie, il cameriere fu provvidenziale. Per forza, tu eri irresistibile.
Ma io no, non lo ero e non lo sono; probabilmente non lo sarò mai. E nemmeno brillavo in quelle altre virtù meno apparenti; un disastro no di certo, ma niente che potesse bastare a giustificare con una pulsione sessuale l’interesse che Margherita aveva per me. Un interesse mai più ritrovato, e che neppure io nutro per me stesso.
Raccolgo il cappotto da dietro la sedia, la guardo alzarsi.
Non dimenticare il mio regalo!
Adesso si bagnerà! Cavolo, quanto piove, dico mentre osservo fuori la pioggia riflessa nel cono d’un faro d’auto.
È qualcosa che sfuggiva e sfugge, ora come allora, così come il tempo che scorre via.
Questa volta offro io!
Devi nascere un’altra volta, prima di precedermi alla cassa, risposi con l’aria galante d’un cavaliere d’altri tempi.
No, non scherzare, t’ho dato io l’appuntamento, lascia fare! Ecco qui, lascia fare, si rivolse direttamente alla ragazza in cassa con sguardo risoluto, invocando la solidarietà femminile. Dovetti cedere, riposi le venti nel portafogli, e lei pagò con l’aria soddisfatta di chi è riuscita a spuntarla.
Sta spiovendo. E adesso? Vuoi venire da me? Passiamo la serata insieme?
No. Ho da fare, sto poche ore, domani riparto. E’ stato così bello vederti.
Le misi una mano sulla spalla. E adesso fatti viva però, mica passeranno altri sei anni.
Non ho sei anni davanti, Gianluca. Sei mesi, forse. E’ stato così bello vederti, disse col sorriso più solare di sempre e calcando sulla parola bello, con la voce serena di chi ha già fatto i conti col destino. Non c’erano veli sui suoi occhi, non c’erano lacrime. Forse le aveva già piante tutte.
Il centro di controllo emotivo era andato in tilt.
Non fu così, stavolta. Il pugno allo stomaco fu più forte di quanto si potesse immaginare, e il groppo alla gola mi impediva quasi di parlare. Un gran freddo veniva alle mani da dentro, e si aggiungeva al freddo che proveniva da fuori. Dev’essere questo che si prova quando si sta per scoppiare a piangere immediatamente. Il centro di controllo emotivo era andato in tilt.
Cos’hai? Si può sapere?
Le tette. Così piccole, ma mi han fatto questo scherzo. Volevo vederti, sono forte, e mi voglio godere ogni momento. Mi mise la mano sulla spalla. Sorrisi, mi aveva fatto ridere davvero con la battuta sulle tette, nonostante la gravità del momento. L’abbracciai, la strinsi forte forte. La baciai sulla fronte.
Lei pure mi baciò. In bocca.
Che c’hai n’euro pe’ sigarette? Una mano sporgeva da un corpo perduto in un cappotto impermeabile di tre taglie più grande, di quelli marinareschi, arancioni dalla crosta spessa, che se dovessi descriverlo farei appello ai ricordi cinematografici o letterari di qualche grande impresa tra i ghiacci polari. Una roba da baleniera, insomma, solo che eravamo non lontano da Termini.
Il barbone del libro. Alla fine fu lui, a ritrovare me.
(mm)
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