Mare bianco (*)
Il tempo non ha ragioni senza colori.
Dal finestrino scorrevano i campi coltivati, distese di verde infinito che vellutavano di colore ogni spazio.
Nessun intervallo vuoto lasciava intravedere da lontano una disarmonia di luce, il verde occupava ogni spazio. Sara si domandò che tipo di colture fossero quei tappeti verdi intrecciati distesi a proteggere la terra.
Il treno scorreva veloce verso la costa, poche ore e avrebbe rivisto il mare.
Dondolavano le colline intorno quando il vagone rasentò la coltivazione più vicina e Sara riconobbe finalmente i filari di viti. Ecco! Che stupida a non capire! Quelle macchie di rosa, di viola o violetto bluastro, appese tra le foglie verdi, come fiocchi di lampadine accese di sole, non erano altro che grappoli d’uva.
Con un sobbalzo sulle rotaie il suo sguardo superò l’infinito, oltre le colline, oltre quelle distese di verde.
Che mondo è questo? Cosa mi sono persa, pensava Sara… A lei sarebbero bastate poche cose per riconciliarsi con il tempo perduto. Quello strano spazio temporale che, come un interstizio tra un prima e un dopo, aveva annullato il tempo, il suo tempo: perché quando si è in carcere non esistono emozioni, non esistono colori, non esistono profumi se non il puzzo perenne di caffè mescolato a quello delle latrine, inconfondibile perché una volta individuato si riconosce dappertutto e diventa il tuo unico odore.
Un lungo momento di attesa, un durevole prolungato attimo che non ha inizio, che non ha fine, un crudele sospiro trattenuto, e devi frenare i pensieri, anestetizzarli, contenerli quasi a soffocarti, come fossero spiriti malvagi, per non impazzire.
Colazione, cortile, televisione, pranzo, pulizia mensa, cortile, televisione, cortile, cena, pulizia mensa. Buio, buio. Ventidue anni come un giorno solo e un solo colore, un solo odore. Sempre lo stesso.
Saltellava il treno correndo stretto tra i filari e Sara allora ricordò la fattoria del nonno, quando era ragazza, quando tutta la famiglia, zii e cugini compresi, si radunava per aiutare il nonno Nino nella raccolta dell’uva. Era felice, e rideva e giocava e cantava.
Cantava le canzoni di Francesco Guccini sfidando gli altri ragazzi a chi ne sapeva di più a memoria… “…Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante, mia madre non aveva poi sbagliato a dir che un laureato conta più d’un cantante, giovane e ingenuo io ho perso la testa… “ oppure “ – la preferita di Sara – “Vedi cara, è difficile spiegare è difficile parlare dei fantasmi di una mente…”
I fantasmi della mente come spettri dei suoi rimorsi, come le sue colpe…e di quelle giornate, di quei profumi dell’uva appena colta, il profumo del fermentare di mosto nel tino o quello della paglia umida del capanno dove si riunivano tutti i ragazzi a giocare e l’odore della terra, il profumo acre della terra secca.
Puzzava di selvaggio Agostino, il figlio del fattore, che le stava sempre dietro, rincorse e trattenute, rotolando per terra lottavano, lui la stropicciava in ogni parte del corpo allungando le mani sul suo seno strofinando la sua bocca cercava di baciarla con la scusa di scacciarle dai capelli qualche insetto.
Traballava il treno nella discesa verso il mare e fu dopo la galleria, abbagliata dai raggi del sole, che Sara ascoltò per la prima volta dopo tanti anni il pulsare del suo cuore, o soltanto fu colpa di quei ricordi a farle tremare il cuore. Poche ore e avrebbe rivisto il mare.
A venti anni si ha il diritto alla felicità e Sara fin da ragazza aveva programmato ogni cosa per realizzare la sua vita nel segno della straordinarietà. E sprizzava desideri e volava sopra le strade, le piazze, le porte di casa, calpestava la terra sapendo che ogni opportunità la stava aspettando, lei era pronta, era lì a poca distanza, le sarebbe bastato allungare una mano, sporgersi oltre, fare un piccolo passo avanti e afferrarla, la felicità.
Sara non aveva messo in conto la fortuna. Ci vuole fortuna per innamorarsi, per essere amata, per ricevere rispetto, per non essere violentata dal disprezzo, per non essere straziata dalla rabbia. Ci vuole il tempo della ragione per essere capita, per essere felice, ma quel passo in più per lei era stato solo rovina, ribellione, infelicità, odio, vendetta… carcere, ventidue anni di carcere. Puzzava di carcere Sara!
Il treno rallentò dopo la discesa, lento adesso in salita sembrava soffrire d’inquietudine meccanica, superato un ponticello si fermò: ci vuole tempo per capire l’inganno, ci vuole un attimo per opporsi alla cattiveria.
Ancora quasi percepiva tra le mani l’odore del mosto che afferrava veloce dal tino dopo la pigiatura e che lanciava di corsa per colpire Agostino, certo per dispetto, ma anche perché la divertiva e le piaceva un sacco, Agostino.
Nessuno scendeva dal treno, nessun rumore di porte, nessuno saliva e oltre il dosso forse c’era il mare, arriverà, arriverà presto il mare, pensava Sara. Solo un merlo appostato sul tetto della stazione sembrava interessarsi a lei, scuoteva la testa in segno di fastidio per quella visita inaspettata.
Bianco corridoio, bianche pareti, luci bianche, bianco cielo, nessun odore, nessun profumo ha il bianco di una cella.
Ricordò che solo dall’alto della sua cella, da una stretta finestrella, poteva scorgeva un pizzico di cielo, ma anche il cielo come la luna da lì erano bianchi, sempre bianchi.
Da un amore senza amore è difficile scappare, senza più lacrime ti sembra di delirare, quella notte fu la notte della disobbedienza, del sacrificio, la scelta di Sara per la libertà.
Dopo il fatto, l’arresto, l’interrogatorio ebbe solo voglia di dormire, non svegliarsi, non sapere, non vedere, dormire solo dormire.
Alla ripartenza il treno adesso schizzava veloce, superata la stazione, dritta la strada ferrata in discesa pareva incoraggiare la corsa, senza paura, senza ostacoli. Solo una piccola curva la fece dondolare mentre il signore che le stava di fronte, sempre silenzioso e attento alla lettura, la guardò, le fece un dolce sorriso, chiuse il libro, sbottonò il colletto della camicia: “Va al mare, mia bella signora?” le chiese.
“Io?- non si aspettava Sara che qualcuno le rivolgesse una frase con simile delicatezza – Io, io ri-ri-ritorno a casa.”
“Io vado in vacanza a P., ogni estate per un mese, così da quindici anni ogni estate trascorro lì le mie ferie… Lavora al Nord?” E’ Sposata, ha figli?”
“ No. No. Sono stata fuori per molti anni, tanto te-tempo…tan-to tempo… e poi…”
Il signore non aspettò che Sara terminasse la sua frase, chiuse gli occhi e si addormentò, quieto.
Quasi avanti forse il mare.
Non pensava Sara al suo futuro, non voleva pensare, allenata da anni alla solitudine dell’essere, non voleva pensare e concentrava ogni nervo del corpo verso un punto vuoto, solo quello le serviva per stare in equilibrio e per non precipitare nell’abisso della follia: non devi soffrire, non devi soffrire! Questo guscio vuoto fatto di polvere di ricordi adesso era l’unico motivo che le consentiva di rimanere cosciente, vigile ma in pace con se stessa. Nulla. Bianco. Vuoto. Dormire.
Si svegliò di soprassalto. Qualcosa non andava, stava accadendo adesso! Ma era sveglia o ancora dormiva? Confusa, infastidita tremava tutta, anche le gambe saltellavano sul pavimento della vettura, le mani tamburellavano sui braccioli, batteva a ritmo le pareti il sangue nelle vene in preda a riflessi incontrollati, il cuore picchiava come volesse esplodere d’un colpo, stava male, non respirava, tutto il suo corpo traballava inseguendo il trotterellare del vagone sulle rotaie, senso di nausea, paura. Cosa accade? Vacillava. Calma, calma. Respira, respira, respira! Si disse. Chiuse gli occhi, pochi attimi. E capì.
Un odore, un profumo, “quel” profumo. Eccolo: il mare.
(*) Il racconto MARE BIANCO è stato premiato come terzo miglior testo da Profumidipoesia II° Ed 2019