24 perché, 48 ore a Manhattan
Sto facendo un viaggio più lungo della gamba. Oltre la mia portata, oltre l’oceano. Un viaggio che non dimenticherò, per molti motivi, primo tra i quali la compagnia.Le mie impressioni, dopo 48 ore qui, sono queste.
È dove, quando cammini per strada, devi sempre avere un bicchiere in mano. Io, per darmi un tono, ne ho tenuto uno vuoto, perché per riempirlo ogni volta erano multipli di 2 dollari e 45.
È dove se metti il naso in su, e devi per forza, ti vengono le vertigini peggio che se fossi lassù al centesimo piano.
È dove hanno costruito un grattacielo accanto ad una cattedrale e, per dire che va bene, che è libertà urbanistica (follia, dico io) allora ci piazzano una bandiera americana enorme che sventola orgogliosa. E alla fine il risultato è persino tipicamente comprensibile.
È dove puoi andare in giro con la tuta verde ed i tacchi a spillo, o con i jeans e sopra un abito da matrimonio in raso lilla ed un copri spalle tigrato. Opinabile ma, yes, you can.
È dove puoi tornare dalla tua giornata di lavoro dalla city in giacca e cravatta usando lo skate. E risulti onestamente un gran toco.
È tutto amore quel che luccica.
È dove in sedia a rotelle puoi passare quasi ovunque, e se hai una gamba sola e vuoi stare in piedi, puoi sempre indossare un pattino e spingerti con le due stampelle per andare come flash. Incredibile ma visto davvero.
È dove stanchi impiegati servono sorridono sempre servendo hamburger a stanchi clienti che non sempre sorridono.
È dove puoi entrare in un grand hotel e chiedere del posticino segreto dei burger. Che è dietro la tenda della hall.
È dove ogni pietra parla di cinema. E dove le star del cinema abitano o hanno abitato.
È dove è possibile perdere uno zainetto, figurati se non può succedere. Ma inspiegabilmente, in una città tanto gigantesca, è anche possibile ritrovarlo grazie ad un tassista onesto.
È dove un afroamericano flirta con un’asiatica, mentre un giapponese li osserva divertito a fianco del suo fidanzato svedese. È tutto amore quel che luccica.
È dove la cassiera vorrebbe darti il resto ma non ce la fa perché ha le unghie troppo lunghe, e allora lo prendi da sola.
È dove i panini si pagano a rate, in multipli di 7,45, e per mangiare invece al ristorante dovresti venderti la moto.
È un milione di starnuti e colpi di tosse contemporanei nella lunghissima sequenza di vagoni di una metro di periferia diretta in centro.
È un mendicante sulla subway che cantilena come nenia la sua questua, e nessun occhio si muove dagli smartphone, se non quando lui è ormai di spalle. Le mance però si danno sempre. Perché l’America non è un miracolo ma il risultato di molta gente che lavora duramente.
È dove pranzano a centinaia nello stesso posto, ognuno solo al suo tavolo.
davanti a due vasche commemorative, hai improvvisamente un gran freddo.
È l’intolleranza verso la goffaggine che blocca file e servizi… ma la sorridente accoglienza per chi invece chiede aiuto.
È lo sciacquone del bagno che si attiva da solo o con il piede. Molto più logico che con la mano.
È dove, a vedere solo palazzi, un po’ ti sale l’ansia. Ma poi c’è Central Park.
È dove le persone sembrano uscite da un film di Woody Allen. E invece, pensa: è il contrario.
È la città che non dorme mai, in effetti è così. Ma non è che tu stai messa meglio.
È quello che non vedi, perché non puoi che vederne solo quella piccola parte che vedi.
Sembra già vista e invece è sorprendente.
È troppo. È… Manhattan.