Lo gran circo del sole
Giordano Bruno, prima di venir ridotto in cenere in Campo de’ fiori e indi sbarazzato da lì senza tanti complimenti a riposare nelle dorate acque del fiume Tevere, aveva sostenuto con forza temeraria la teoria di messere Niccolò Copernico che lo gran circo delli astri tutti s’aggira vorticosamente in bella danza attorno allo segnor giocondo che nui s’appella Sole.
Lo aveva fatto talmente con tanta convinzione che anche l’ultima fiammata del falò che lo appicciava quasi allo polpaccio si era fermata un attimo a ragionare su quelle strane affermazioni e per un momento era parsa addirittura intenzionata a convertirsi all’eresia.
Così spesso vanno le cose al mondo, che chi c’ha ragione veramente se la fa passare, mentre chi non ci capisce un fico secco sta lì gaudente a raccontarla in giro.
Ma un tale meraviglioso spettacolo doveva pur andare avanti e, per di più, se a fare gli onori di piazza era quella congrega di monsignori paludati della santa inquisizione che, diciamolo pure fra noi, doveva proprio essere una masnada di cari buontemponi come non se ne vedono spesso in giro neanche ai giorni nostri.
Quindi l’arrosto fu servito ai pesci tiberini senza tante cerimonie e quello che rimase del furore eroico dello Giordano Bruno se lo portò il vento, per la sua pietà via oltre li colli sacri di Roma, come è consueto e giusto in tutti questi casi.
Eppure noi lo sappiamo che avevano ragione quelli due, l’astronomo polacco e lo suo ardente e affezionato Bruno, contro tutti li altri di cui non si ricorda il nome se non per accidente. Così spesso vanno le cose al mondo, che chi c’ha ragione veramente se la fa passare, mentre chi non ci capisce un fico secco sta lì gaudente a raccontarla in giro.
Ma torniamo allo segnor giocondo o altrimenti sole, di cui parlava Bruno.
L’astro rotante avea avuto certo un bel da fare nei cinquecento milioni di anni precedenti quel falò per accordare un così poderoso seguito di prime stelle erranti attorno al fuoco suo: a metter su una compagnia di acrobati e giocolieri capaci di tali mirabilie non sono buoni tutti.
Lo sole infatti ebbe certo la bisogna di assistemar per bene un bel po’ di orbite celesti, trapezi ballerini, cordoni, reti protettive, onde della gravità, tiranti e funi in perpendicolo prima di dare inzio allo spettacolo dello universo.
Così avea da figurarsi lo universo infinito e li mondi che si spaccian per le interminate braccia delli campi celesti il filosofo poeta e mago che poi finì flambè: un circo grande, potente e luminoso, esteso quanto un infinito più un infinito più un infinito e qualche cosa ancora.
Noi più modestamente sappiamo che il circo di cui facciamo parte ha, come minimo, lungo e vertiginoso respiro attorno a un centro decentrato, da cui si spiega la deriva nostra.
Questo pensavo l’altra sera quando ho poggiato le delicate terga sulla seggiola di plastica, fredda e allineata con altre cento al massimo, attorno alla pista del circo più piccolo che io abbia mai visto.
E ho capito tutto a un tratto Bruno, Copernico, la santa inquisizione, financo il popcorn piovuto sopra la mia testa, mentre tenevo sulle mie ginocchia la piccola Marianna in piedi e intenta con lo sguardo da duenne ad osservare piroette, acrobazie e giochi funambolici sotto il tendone azzurro e bianco.
Calcoliamo i rischi, misuriamo il limite, ma sempre rimaniamo appesi a un filo, sospesi in aria su una fune, attorno a un palo o sulle spalle di un compagno di avventura.
I saltimbanchi e i pagliacci di questo circo di provincia che sbarcano il lunario al freddo di novembre hanno qualcosa da insegnare. Non so se a marte, urano o venere, ma certo a me.
Lo spettacolo deve continuare e noi saremo sempre quelli che rimetton in marcia all’indomani la carovana.
Dopo ogni sera bisogna cominciare nuovamente il giro, e poi saltare ancora dentro il cerchio, lanciare in aria clave e palline colorate, far roteare un’altra volta mondi e occhi di bambini attorno ai nostri gesti.
Sappiamo che gli eroi li brucia il tempo e li conserva l’infinito, perciò ricominciamo sempre con fasce ai polsi e qualche protezione ai tendini d’achille il nostro folle e disperato numero acrobatico.
Calcoliamo i rischi, misuriamo il limite, ma sempre rimaniamo appesi a un filo, sospesi in aria su una fune, attorno a un palo o sulle spalle di un compagno di avventura.
Noi siamo, in fondo, né più né meno di quei pagliacci che se le danno in testa con finte mazze pernacchiose, per fare capriole a terra e strabuzzare gli occhi, così che il mondo rida di tutto quello che ha inventato per essere leggero, ingenuo ed incolpevole.
Noi siamo un circo gioiosamente alla deriva.
Il nostro sole è forse un po’ più caldo se ci mettiamo dentro tutti i nostri sogni a combustione, le nostre piroette forse più luminose se replicano i vortici galattici.
I nostri scherzi da clown saranno forse un po’ più seri quando riusciranno a prender per le orecchie e trascinare in girotondi ballerini quei buchi neri che amano soltanto il proprio folle ego, le proprie fredde maschere riflesse nel nulla di se stesse, nella tristezza del buio che si trascinan dentro.
Saremo artisti veri di questo circo quando, con un sorriso o uno sgambetto, volando sopra tutto, saremo in grado di portare a spasso di fronte agli occhi dei bambini le nostre illimitate imperfezioni riempiendole di mille caramelle colorate.