Elogio alla tristezza
Celebriamo solo un certo tipo di emozioni. La gioia, la sensazione di vittoria, l’essere orgogliosi, la sensazione di soddisfazione intima che proviamo quando facciamo del bene. Nessuno celebra la tristezza, seppur necessaria. Contraiamo tutti i muscoli interni pur di non sentire, di cacciare via un elemento non desiderato. Le donne con le doglie sanno che una delle prime cose che insegnano per sopportare il dolore è la capacità di abbracciarlo, accoglierlo e accettarlo come fase necessaria affinché la natura faccia il resto. Il dolore ci insegna che l’utero si contrae, che siamo vivi, che tutto sta facendo il suo naturale decorso.
Oggi in metro ho visto un uomo tristissimo. Stringeva il suo smartphone e leggeva qualcosa, probabilmente un messaggio. Ha provato a chiamare qualcuno, ma nessuno ha risposto. Quell’uomo sulla quarantina era triste e a me, che non so niente di lui, è sembrata una pena d’amore. Un rifiuto, forse, o un impedimento. Qualcuno che tramite un messaggio gli ha detto: “Non possiamo più essere. Non ce la faccio”. E lui, seduto in metro, ha pensato alla giornata di lavoro che era appena iniziata, a quanto fingerà di essere come sempre, a quante porte interne chiuderà pur di non sentire, non vedere, non accettare. La tristezza arriva quasi come una benedizione. Vuole farci fermare, sedere, respirare. Manda una fitta al petto, un pianto inconsolabile. E noi la ignoriamo. Arriva quel dolore cronico tra le scapole. E noi la ignoriamo. Il fiato corto. E noi non ci pensiamo.
La tristezza resta là, anche lei guarda quel messaggio che sancisce la fine e tutto quello che vuole è rinnovare le cellule piene di disperazione, di solitudine. È fisiologica, indispensabile, imprenscindibile. Non ti chiede di capire, di essere d’accordo. Ti chiede di accettare. Sederti e lasciare che il dolore ti avvolga, prima come un crampo, poi più forte, fino al compimento del processo di rinnovamento.
Anche io ero triste per quel messaggio, un po’ per empatia, un po’ perché un dolore ne richiama sempre un altro più personale. È una farsa, millantiamo una sensibilità che in fondo è anche egoismo: soffriamo per gli altri perché ci ricordiamo di quando siamo stati noi a soffrire così. Tutto ritorna a noi.
Avrei voluto dirgli di tornare a casa, di spegnere il cellulare e lasciare che tutte le cellule si intossicassero – se fosse stato necessario – prima di accettare che la tristezza lavi via tutte le scorie. Non gliel’ho detto, sono stata codarda. Un’anima in pena penserà sempre di essere l’unica a soffrire, siamo egoisti anche nel nostro dolore.
Ha messo il cellulare in tasca ed è sceso dal vagone. Spero smetta presto di fingere che tutto va bene.