Vuoi star zitta, per favore?
Se riusciamo a evadere un messaggio fondamentale del cosmo, esso trova dei modi molto ironici per ritrovarci tra i meandri dei nostri impegni urgenti, accelerati e disordinati, e spiaccicarci certe verità dritte in faccia.
Alla soglia dei miei quarant’anni ne ho avuti parecchi di quei momenti. Certe volte li ho considerati come conti da pagare al karma, semplici problematiche aliene alla mia volontà, oppure delle ottime occasioni per mettere in pratica le mie virtù procrastinatrici.
Ho deciso di voltare la faccia quasi sempre; di andarmene fischiettando come se non fossero problemi miei: lontano dagli occhi lontano dal cuore, dicono.
Succede però che un pomeriggio di autunno un dottore alto due metri e con macchinari che sembrano usciti da una stanza di tortura, decide di erigersi a rappresentante diretto del suddetto cosmo, in virtù della scienza, e per darmi un chiaro messaggio: Questa volta lei non può scappare.
Come potrei?
Sono seduta su una sedia scomodissima e ho un cavo appeso al naso che dall’altra parte naviga nelle profondità della mia faringe e delle corde vocali.
Non scappo.
Vuole stare zitta, per favore?, mi dice.
Prego dottore?, dico io.
Deve stare zitta, ribatte.
Da ora?, insisto.
Da ieri, mi risponde.
Ho un problema alle corde vocali. Un problema che per ora non è grave ma potrebbe esserlo, se non ricevo e timbro immediatamente il cartellino che il dottore mi porge con diagnosi e cura.
E come faccio a non parlare?, dico io.
Azzarderei, facendo silenzio, mi dice.
Io ho una vita stra-parlata, piena zeppa di parole, musica, canti, discorsi, messaggi vocali, filastrocche, battute, non capisco neanche di cosa stiamo parlando.
Io ho una vita stra-parlata, piena zeppa di parole, musica, canti, discorsi, messaggi vocali, filastrocche, battute, non capisco neanche di cosa stiamo parlando.
Il silenzio.
Come quel tipo… Bocelli, lo conosce?, mi dice il caro messaggero.
Rispondo di sì, immaginando quanto cervello potrebbe rimanere attaccato al cavo se tentassi di staccarlo da sola per darmi alla macchia immediatamente.
Andrea Bocelli per chi non lo sa, fa la cura del silenzio; questo bravissimo, eccellentissimo cantante pare non parli per giorni prima delle performance più impegnative.
Ha per caso un marito a cui bisogna ricordare periodicamente che il cassetto della culla è rotto e vorrebbe essere disperatamente riparato, questo Bocelli? Non mi pare.
Oppure una figlia che desidera filastrocche, canti infantili e armonie in do maggiore perché altrimenti non dorme nessuno (inclusi i vicini e gli abitanti del villaggio)? Non credo proprio.
Pratica un lavoro in cui dei ragazzini tra i dieci e i tredici anni, la cui unica fonte di sostentamento sembrano essere caffè forte e zucchero semolato, lo degnano di attenzione solo dopo un urlo primitivo?
La risposta è no.
Posso almeno canticchiare ogni tanto, dottore?, gli chiedo.
Ciccia. No. Zero. Almeno per un po’. Mi risponde sorridendo.
Manda dei messaggeri che si divertono pure, di fronte alle facce dei destinatari dei loro ammonimenti, oltre il danno la beffa.
Così fa il cosmo. Manda dei messaggeri che si divertono pure, di fronte alle facce dei destinatari dei loro ammonimenti, così oltre il danno la beffa.
E così sia, dico rassegnata.
Imparare ad ascoltare alla soglia dei quarant’anni.
La cura, scritta a caratteri cubitali in un foglio che guardo con amarezza ogni tanto, contiene una sintesi definitiva: consigliata la rieducazione respiratoria. In pratica devo imparare di nuovo a respirare e parlare.
Perché il problema della velocità è che spesso non si sa come controllarla, come in una macchina. Guidiamo e voliamo come il vento senza pensare ai pedoni, ai gatti che attraversano la strada, ai muri che erano là prima che ci mettessero per forza una colata di bitume, alle altre macchine davanti a noi.
Tempo, tempo, tempo, corriamo, parliamo, decidiamo, compriamo.
Devo stare zitta e come direbbero i Tiromancino, imparare dal vento a respirare. E poi (re)imparare anche altre piccole cose.
Ad avere fiducia nella specie dei mariti che si sa, prima o poi entro i diciotto anni dei figli, ripareranno quel cassetto.
Trovare un metodo silenzioso per addormentare bambini e nel frattempo cucinare torte e arancine da regalare ai vicini qualora tale metodo non funzionasse.
Affrontare il mio branco di pre-adolescenti ogni giorno, avvicinandomi a loro invece di urlare, ascoltandoli invece di tentare di farmi ascoltare.
Ricordarsi di rispondere ai messaggi del cosmo quando ancora sono semplici memo, senza tante conseguenze.