Le lavanderie a gettoni
Le lavanderie self-service dicono tanto di una persona, basta solo guardare il tipo di bucato nelle loro ceste. Un po’ come al supermercato quando butto un occhio sul rullo della cassa e immagino la vita di chi sta per pagare: i pasti preconfezionati, i gelati, le barrette proteiche, i pannolini. Sommo questo e quell’altro e mi ritrovo con una versione parziale e sgangherata, ma forse anche un po’ veritiera, del signore che sta per pagare.
Oggi per la prima volta sono entrata nella lavanderia a gettoni del mio quartiere in tuta e scarpette, un bustone enorme di cose da asciugare, abbastanza spiccioli in tasca da essere riconoscibile ad ogni movimento. Me li immaginavo un po’ tutti così i clienti di un mercoledì mattina uggioso: a metà tra una tenuta da casa e un pigiama, lo sguardo annoiato mentre osservano i movimenti circolari delle grandi asciugatrici. Mi sbagliavo. C’era una ragazza dal portamento elegante, mora, stivaletti lucidi bordeaux dal tacco quadrato, pantaloni grigi stretti in vita e una magliettina nera con degli inserti di perle sul collo. È restata tutto il tempo seduta, le gambe affusolate incrociate, la schiena dritta, gli occhi puntati sul telefono. L’unico dettaglio che tradiva una sorta di nervosismo erano le unghie rosicchiate con lo smalto rosso disomogeneo. Ai polsi portava quei braccialetti colorati che si comprano in spiaggia, ormai completamente sfilacciati.
Ha inserito una moneta nel sistema centralizzato per il pagamento e ha riempito l’asciugatrice numero sei. C’erano felpe, jeans, qualche indumento con la zip che continuava a produrre un fastidioso rumore sull’oblò, delle lenzuola. Era tutto colorato, non c’erano tracce di indumenti maschili o infantili. Era quello uno stralcio di vita urlato a bassa voce dai suoi vestiti sporchi? E chi era lei, la ragazza raffinata dagli stivaletti lucidi o la proprietaria di quella felpa gialla e quei jeans a zampa consumati?
Ho immaginato quelle lenzuola in una stanza affittata in questo stesso mio quartiere. Lenzuola che forse l’hanno vista fare le valigie per andare a trovare i suoi e poi tornare mentre si infilava veloce quella felpa gialla di almeno due taglie più grandi.
Era smaniosa, la sconosciuta, continuava ad uscire per parlare al telefono e controllava di continuo quanto mancasse per poter finalmente piegare il suo bucato. Muoveva nervosamente la gamba accavallata, forse pensava che avrebbe rosicchiato le unghie se avesse potuto.
Se n’è andata senza salutare, non come le altre signore che, affabili e forse un po’ espansive, passavano in rassegna ogni viso solo per potersi congedare da altri sconosciuti. Lei no, ha raccolto le sue cose in fretta, anche le lenzuola sgualcite della sua camera in affitto, e se n’è andata senza far rumore. O meglio, con l’unico rumore dei suoi tacchi quadrati che inforcavano la porta.
Avete ragione, non so niente di lei, ma ho visto le asciugamani, i jeans, le felpe. Ho visto la sua immagine casalinga e forse un po’ solitaria stridere con gli stivaletti eleganti e il portamento rigido. Ma non siamo forse tutti un po’ questo e un po’ quell’altro? Non siamo i pantaloni grigi e quelli sfilacciati a zampa? Quelli che vanno di fretta e quelli che passano diciotto minuti a guardare un’asciugatrice?
L’ho battezzata Barbara questa giovane donna che ha usato l’asciugatrice numero sei. Chi lo sa chi deciderà di essere domani.