Il marketing delle emozioni: Giano Bifronte?
L’altra settimana ho parlato di una campagna pubblicitaria che mi aveva scossa parecchio. Da una parte, era bellissimo che si trovasse il modo di regalare spensieratezza a chi sembrava averla persa. D’altro canto, però, altri punti mi hanno lasciata scettica. Come mi ha detto recentemente qualcuno, c’è sempre da mantenere distinto, finché si può, il marketing dalla comunicazione, soprattutto quando si tratta di comunicazione sociale, dove spesso un oggetto da vendere non c’è.
Allora passi la Mimi Foundation se è vero che, come risulta, si alimenta perlopiù di donazioni libere, ma il mio precedente articolo è stato lo spunto per riflettere su parecchi degli ultimi spot che hanno fatto il giro del web.
Su tutti penso a Dove e penso a True Corporation, che ho letto essere una sorta di Telecom thailandese. Cliccate sui nomi e guardate gli spot. E, se non l’avete fatto la settimana scorsa, guardate anche lo spot della Mimi Foundation.
Chiaramente per ciascuno dei tre video andrebbe fatto un discorso a sé. Per cominciare, sottolineerei che la prima, quella di Dove, come anche quella della Mimi Foundation, si basano su valori unicamente estetici. Con il dettaglio – se così si può dire – che i protagonisti dello spot della Mimi Foundation sono malate di cancro, e con l’attenuante, che la Mimi foundation vive di donazioni, perlopiù. Ovvero, non mi piace come lo fai ma mi piace quello che fai. Per la Dove, boccio oggetto e modalità in un colpo solo, invece. Altra critica che è possibile muovere ad entrambe è che rappresentano una vita radical chic quanto basta per rendersi odiosa: chi si rifà il look, chi si fa ritrarre. E a me il radical chic non piace – anche se mi diverte; non mi piace nemmeno un po’ questa mercificazione obbligata di tutto, non mi piace il rito – nato come radical chic ma ormai fattosi borghesotto – di non perdersi neanche un vernissage con relativo brindisi e scrocco di dolcetti; non mi piace – ma forse un giorno finirò anche io per prostituirmi in questa maniera – questa presenza di creativi nelle aziende di ogni tipo perché la trovo un po’ prostituzione dell’arte – ma quella c’è sempre stata, ahinoi; non mi piace che esista un corso di “storytelling e comunicazione d’impresa” che si tiene in università, dove l’arte della scrittura va a braccetto con il lancio pubblicitario del dato prodotto di cosmesi, alimentazione, abbigliamento o chi per lui-lei-loro.
Prima di divagare, mi soffermo ancora sullo spot thailandese. Non vedevo da un po’ qualcosa di così lacrimevole. Non mi piace mai, in linea di massima, quando ci si richiama alle emozioni facili, che però son quelle più sicure perché coinvolgono tutti. Io, donna di cervello – fin troppo – vedo dietro lo spot thailandese un altro lavoro di cervello fatto con l’obiettivo economico in cima rispetto agli altri, vedo una lacrima troppo facile per durare a lungo, vedo la storia di una malattia banalizzata per arricchire le tasche di chi è già ricco.
Vero è però che ogni tipo di comunicazione sottintende un qualche tipo di storia, e allora forse questo tipo di spot è solo normale evoluzione della pubblicità anni sessanta, che finalmente nel ventunesimo secolo può permettersi di durare di più, di essere lanciata sul web, di raccontare storie complesse dall’inizio alla fine. Ma se quelle storie sono talmente mainstream da fare richiamo a qualcosa che bene o male smuove tutti nell’intimo, se quelle storie non sono assolutamente intelligenti ma così pateticamente melodrammatiche, se non c’è crudeltà, non c’è dramma, ma tristezze ed afflizioni edulcorate, banalizzate per renderle più universali possibile, a me queste storie non piacciono come non mi piace un libro mainstream che le narra, come non mi piace un film mainstream che le racconta, con l’aggravante che il film e il libro non tentano surrettiziamente di farmi aderire a quella determinata compagnia telefonica o di farmi comprare quel sapone. Qui, di nuovo, si salva la Mimi Foundation, che mette in scena stralci di un modello di vita che personalmente non trovo culturalmente interessante, ma quello è un altro conto: almeno la Mimi Foundation non mi chiede soldi per arricchire le sue tasche, ma solo per tenersi in vita.
A me fa venire i brividi, in ambito di marketing, la costruzione del target bambino e del target omosessuale-di-media-età e del target immigrati, non mi piace che ogni minoranza prenda ad esistere soltanto nel momento in cui è rappresentata sul mercato, se esistono promozioni in scadenza e offerte speciali rivolte a lei.
A me fa venire i brividi, in ambito di marketing, la costruzione del target bambino e del target omosessuale-di-media-età e del target immigrati. Non mi piace che ogni minoranza prenda ad esistere soltanto nel momento in cui è rappresentata sul mercato, se esistono promozioni in scadenza e offerte speciali rivolte a lei. Trovo assurdo che oggi per una coppia omosessuale il fatto di esistere nella società sia reso concreto dall’aver l’angolo narrativa omosessuale alla Feltrinelli, trovo paradossale che l’immigrato abbia il suo posto nella società soltanto se a rappresentarlo c’è la tariffa speciale che gli offre telefonate gratuite verso il suo paese di origine, mi fa rabbrividire che il mercato dei giochi per l’infanzia speculi sul tempo libero di quei pargoli innocenti che si divertirebbero con i fili d’erba e le nuvole – e anche qui c’è da dibatterne.
Però è anche vero che senza le chiamate gratuite l’immigrato o immigrata dei ventunesimo secolo di fatto non potrebbe parlare con i suoi cari, di fatto l’omosessuale senza la narrativa omosessuale segnalata nella Feltrinelli dovrebbe girarsi tutti gli scaffali inondati da amore eterosessuale per trovare una storia in cui immedesimarsi alla prima lettura senza applicare un’inversione automatica di pronomi, e di fatto anche i bambini si ritroverebbero fuori dal mondo quando, una volta cresciuti, non sapessero utilizzare la tecnologia – ma comunque nulla osta che si possano unire le nuvole e la tecnologia, nel tempo libero dei bimbi.
Però è anche vero che senza le chiamate gratuite l’immigrato o immigrata dei ventunesimo secolo di fatto non potrebbe parlare con i suoi cari.
Con grande difficoltà accetto questa dura realtà e guardo oltre, e torno al video-spot della Mimi Foundation, che ho visto dopo aver avuto occasione nei mesi scorsi di guardare e criticare mentalmente gli altri due. Posto questo obbrobrio in cui siamo finiti, posto che ritengo personalmente che il sommo bene sia quello umano, radicato in fondo ad ognuno, e che un attimo di benessere sincero val la pena che esista anche a costo di mandare avanti meccanismi contorti e giochi perversi come quelli illustrati, a me lo spot è piaciuto, in fondo. Non per la lacrimuccia che darà il like in più al video, che farà arricchire quell’associazione che lavora con buoni fini ma che, buoni fini a parte, giocherà comunque con le emozioni di chi guarda, non per tutto questo ma perché il potere democratico del video ha espanso la mia antipatia iniziale nei confronti di quei sorrisi edulcorati e pubblicitari, per il gesto di stizza nel vedere l’inaugurazione della mostra alla fine del video. È cominciato così, mentre pensavo “cavolo no, anche qui un sedicente artista, una mostra, un vernissage dove si brinda, aiuto”, poi mi sono accorta del mio disappunto e ne sono stata felice: d’un tratto, valutavo comportamenti di persone umane, non di malati di cancro. Per loro deve essere stato ancora più bello, per le stesse ragioni. È bello essere umani anche in quelle tristi abitudini di tendenza: cerco di mettermi nei panni di una malata di cancro e penso che sì, tutto quello che cercherei sarebbe qualche attimo di normalità. Desiderio legittimo, la normalità, e trovo quindi nobile – mi contorco parlando di nobiltà in questo gioco contraffatto in cui regna il soldo – regalarne un po’. Allora è bella la mente che ha ideato questa campagna, che ha regalato di nuovo agli occhi dei malati un istante di spensieratezza che ha fatto dimenticare la malattia. Un istante solo, prima di ricadere nell’insensatezza del tempo che passa, probabilmente. Ma non si vive forse di attimi così?
Siamo animali comunicativi, e se proprio dobbiamo comunicare tanto vale almeno lanciare un certo tipo di messaggi. Qui – come nello spot della Dove – c’è l’apparire, c’è il farsi vedere, c’è l’esteriorità di un look tutto nuovo. Mi preparo a ricominciare la mia critica e a farmi autoironica portatrice di valori unici sinceri e primordiali – quale so di non essere, beninteso. Ma no: qui, nello spot della Mimi Foundation ci sono sorrisi, sorpresa, c’è vita e i soldi guadagnati raccontando questa storia che mi desta anche antipatia daranno attimi di vita a qualcuno, e allora forse va tutto bene. Con tutti i se e tutti i ma di cui sopra, ma va bene.
Ma voi lettori, cosa ne pensate? Perché abbiamo questo ostinato bisogno di sentir raccontare storie? Perché vi collegate a facciunsalto per leggere le nostre emozioni quotidiane, perché vedete i video strappalacrime della Mimi Foundation, della Dove e della true Corporation? E forse ancora: perché leggete, perché vedete film? Che vuoti dobbiamo colmare? Che cosa hanno capito gli addetti al marketing quando hanno cominciato ad usare le storie come mezzo di lancio di prodotti, che noi ancora non abbiamo chiaro? Che le emozioni non muoiono mai? Ma non è forse proprio commercializzandole, che le ammazziamo?