Lisbona tutto conserva
In casa ci sono tante immagini. Alcune sono appese al muro, altre incollate a una qualche parete con adesivo, altre ancora sono appuntate e alcune pure appoggiate in attesa di, non saprei, un’ispirazione. O di un giorno senza nebbia, forse. Non le guardo mai, a dire il vero. Le ho scelte con cura, eppure difficilmente mi metto a guardarle. So che ci sono e questo mi fa piacere. Il fatto che siano appiccicate a un muro, poi, mi dà sicurezza. Pure le persone andrebbero puntellate. Si, appiccicarle al muro. Che se le appoggi solamente e vai a dormire poi il giorno dopo ti svegli con gli occhi appiccicosi e la barba che prude e loro non ci sono più. Sul muro non rimane che l’alone a ricordare il volume della perdita. Forse i farisei a Gesù gli volevano bene e non volevano che scappasse da loro. No, forse no.
Lisbona è sull’oceano. Cioè, non proprio sull’oceano. Il suo rapporto con il grande mare è quello di un giovane mammifero che sporge la testa oltre il corpo della madre e guarda il mondo esterno con la bocca socchiusa e dieci battiti in più del dovuto. Poi quella grande cosa là fuori soffia forte e il cucciolo si ritrae. Ma oramai l’attrazione è fatale e il mammifero non è più lo stesso. Lisbona l’oceano lo guarda da secoli. Fin dai tempi in cui quella cosa grande e blu non sapeva si chiamasse oceano e pure lei, Lisbona, non aveva idea di portare quel nome. Lo fa da lontano, però. La prima immagine di Lisbona è il suo imbarcadero, la porta di entrata. Due semplici pilastri su quello che, in definitiva, è ancora un fiume. Eppure da queste rive sono partiti in tanti. E allora guardi le acque che educate e ancora insipide accarezzano la sponda, i giapponesi in mezzo ai pilastri, la linea ondulata sull’altra sponda giusto un paio di chilometri dai tuoi piedi, il grande ponte sulla destra che taglia la foce del Tago e copre la vista dell’Oceano. L’oceano a Lisbona è un’idea più che un dato di fatto. Poi ti volti a guardare l’austera Praça do Commercio e i colli ricolmi di case alle spalle di essa. Lisbona. Una narice alla salsedine, l’altra all’Europa. Nuvole veloci, persone dagli occhi colorati e un fiume in crisi d’identità dinnanzi. Vasco de Gama, Ferdinando Magellano. Giovani mammiferi che hanno salutato la mamma. Il ponte e l’oceano immaginato. Cartolina da Lisbona. La metterò sul frigo, credo.
Nella testa ci sono tante immagini. Cose che restano, intendo, fotogrammi incastrati tra gangli e sinapsi fino al giorno in cui la grande centrale grigia farà la fine di Chernobyl. Selezioni talvolta irrazionali. La signora con le Flyflot in fila dal panettiere nel 1997 rimane, il tuo vestito di ieri è sprofondato nell’oblio. E spero non si sgualcisca, che poi ti arrabbi. Ricordo un quadro, forse il primo di cui ho memoria. Pinacoteca di provincia, metà anni novanta. L’autore non saprei. Mi pare di vederlo sorridere mentre lava i pennelli e torce il collo verso la sua opera. Ha i baffi ingialliti dal fumo. Ma questa è un’altra storia. Il quadro, allora. C’è un uomo in uniforme. Una cosa del seicento, tipo. Ha una bella ragazza india sulle spalle. Lei lo abbraccia e ride felice e sguaiata. Lui ricambia sorridendo contenuto e sornione. Mi guardano. Leggo il titolo: Il conquistadores conquistato. Rido, nella maniera in cui ride lei. Ancora oggi mi fa sorridere. Nella maniera in cui sorride lui.
Lisbona ama il suo passato. Si dice ne abbia una gran nostalgia. Ogni tanto piange, ma se ne vergogna e fa sferragliare i tram per coprire i singhiozzi. I tram servono a questo e a riempire la memoria degli smartphone ai turisti. Per il resto meglio la metro. A Lisbona ci sono negozi che vendono cibo in scatola. Solo quello, intendo. Migliaia di scatolette di latta per ricordo o per spuntino. Ce ne sono di tutti i gusti. Ne ricordo una con un marinaio che fuma la pipa. Una roba tipo il bagiggia della Sampdoria, ma preso di fronte. C’avevo pensato, poi non l’ho mica presa. Lisbona conserva tutto. Come quelle persone anziane che il 26 dicembre piegano la carta dei regali e la mettono via. Lisbona è così: tutto può servire. Chiunque è stato a Lisbona non sarà da essa dimenticato. Quindi, in un qualche negozio tra Saldanha e Benfica ci sarà una scatoletta di latta con i vostri ricordi. Ma non la troverete mai, s’intende.
Nello specchio del bagno è conservata la memoria di tutti i cambiamenti. Alcuni sono facilmente visibili, per altri, più profondi, occorre penetrare oltre l’iride del bulbo oculare. I cambiamenti possono essere una cosa dolorosa. Un giorno, forse, saremo in grado di vedere un periodo di transizione da una differente angolazione. Ma nella maggior parte dei casi non è possibile proiettare nel futuro altro che non sia il proprio dolore. Il dolore lo si legge nelle labbra serrate sotto la luce del neon. Si schiuderanno, un giorno. Ma di quelle labbra lo specchio conserverà sempre immagine.
Lisbona è una città che teme i cambiamenti. Ha un abito decadente che non ha mai smesso, conserva i ricordi in monumenti austeri, canta di amori perduti. Ha subito un paio di terremoti e ogni volta è risorta. Diversa, certo. Ma fondamentalmente uguale. Lisbona ha tanti nomi e nessuno è di troppo. I tedeschi la chiamano Lissabon, gli inglesi Lisbon e gli italiani Lisbona, appunto. Lisbona li conserva tutti i suoi nomi. In definitiva, non saprebbe scegliere. Ci pensa, perché Lisbona elucubra su tutto. Lo fa mentre percorre le salite e le discese che la caratterizzano. Lisbona va vista dall’alto, da uno dei suoi tanti miraduro. Scostante, imprecisa, umorale, talvolta illeggibile. Da lì sopra Lisbona guarda i suoi cambiamenti. Felice, si, ma solamente ora.
Lisbona non è una città. Una casa, una grande casa. I suoi ricordi, i suoi errori, i ripensamenti, le immagini stampate e quelle solamente pensate. Lisbona, la grande conservatrice che da sempre guarda oltre. Oltre l’oceano, oltre l’oggi. Un po’ costretta, un po’ affascinata.