Un amore ingombrante
In quei giorni di fine estate eravamo giovani, belli e felici. Anche se, a dire il vero, la felicità c’era a intermittenza: le permettevamo di entrare dentro noi, e di sopraffarci totalmente, solo quando le nostre altre discrasie emozionali abbassavano la guardia. O la alzavano, a seconda dei punti di vista. M’era riuscito di essere felice all’improvviso, anche quando la osservavo solo – e sarà successo tre o quattro volte perché quello era un mio compito non scritto – alzarsi dal divano per farsi un caffè.
Ci siamo divertiti tanto, quell’estate, e ci siamo annoiati e siamo rimasti soli, poi con tanta gente che ci prendeva per pazzi quando lei scoppiava a ridere e io le dicevo: “Ma questo non è un comportamento da principessa” e lei allora mi stringeva a se, mi dava un bacio sulla guancia e mi sussurrava:
“Andiamo a sdraiarci in un prato”
“Ma come?” le facevo io “Ho la camicia bianca e ha piovuto tre ore fa”; ma lei a quel punto mi aveva già preso il braccio ed era già a trascinarmi via, a dribblare persone impalate che ballavano strette tra loro, a succhiare cannucce di mediocri cocktail costosi, a urtarle per sbaglio e noi a sorridere e prima che il loro cocktail, che la loro danza, finisse, noi eravamo già a fare l’amore dietro un albero.
Abbiamo urtato molte persone, quell’estate, perché il nostro era un amore ingombrante, uno di quelli che fa rumore quando si sposta, che fa rumore quando arriva, e luce.
“Mi abbagliano i tuoi occhi”
“Ma non dire stronzate, scemo”.
E poi continuavamo a guardare il soffitto, a pensare a che cosa avremmo fatto il pomeriggio, a dove saremmo andati. “C’è una mostra di Monet” “Che ne dici di un concerto di Motta?” “Gio ci ha invitati a cena”.
Talvolta prendevamo paura, di questo amore ingombrante, perché lui si offendeva se lo chiamavamo così, e ci spaventava. Lui voleva essere leggero, spaziare giocondo, essere riconosciuto da tutti per quello che era o, quantomeno, pensava di essere: una bella cosa, anzi, la più bella cosa di tutte. Ma il suo sguardo abbagliava, e dovevi metterti gli occhiali. La sua voce metteva i brividi e dovevi coprirti. Se non c’eri abituato, alla sua presenza, potevi restare confuso, o dartela a gambe levate. E lui, si offendeva, e pareva dire: “Sapete che c’è di nuovo? Vado a fumare una sigaretta” senza dire quando sarebbe tornato. Perché sarebbe tornato, come sempre, ovviamente, secondo lui.
L’ho ritrovato qualche giorno fa. Stava bevendo un caffè fuori in un bar e leggeva il Corriere. Camminavo lungo il viale della Stazione, sotto i portici; mi fermò lui. “Questa volta non ci hai messo tanto. Ti è passata l’incazzatura?”
“Tu non dirmi che sono ingombrante” mi rispose “ho solo le ossa grosse, semmai”.
Finì il caffè. “Su, ora torniamo da lei”.