Mal di Sicilia (impressioni al pistacchio)
La prima volta che vidi la Sicilia fu dall’alto. Ricordo la costa tirrenica coprire lentamente lo spazio celeste del mare, un paesaggio brullo con grandi paesi sparsi qua e là tra montagne nude e prati di paglia e un grosso nuvolone a coprire quello che indovinavo essere l’Etna. Poi l’aereo virò e della Sicilia non mi rimase che quel breve scorcio di grano mietuto e agglomerati di cemento. E l’Etna riottoso e annuvolato, sempre che lo fosse veramente.
Qualche anno più tardi ne vidi una parte. Che mi pareva piccola e invece era infinitamente grande. O forse credevo fosse gran parte dell’isola e invece era una porzione assai piccola. Non lo so. Fa niente.
Trapani mi si presentava vestita a festa e, orgogliosamente punica, dardeggiava il mare dal suo istmo di terra. Poi Erice, fredda e prelibata, Marsala con la camicia rossa di Garibaldi al corpo e il fez del sultano appoggiato sul capo, Sciacca che era così bella che alla fine nessuno se l’è sentita di sposare e ora se ne sta triste e abbandonata e tuttavia ammiccante nonostante l’età, Agrigento che è qualcosa in meno rispetto alla valle dei templi che domina dall’alto e tuttavia molto di più della squallida periferia che non gli rende affatto merito.
Per Palermo, città dove chiunque ha lasciato qualcosa e quel qualcosa è fiorito e si è fatto arte, cibo, parola, dove a ogni inverno corrisponde, prima o poi, una primavera, per Palermo e i suoi mercati ombrosi e vocianti, le sue chiese fatte di oro e apostoli, dicevo, non basterebbe una risma di fogli. Andiamo avanti.
Girare la Sicilia in auto disorienta. Se passi all’interno sono montagne e paesi nati con la fusione del rame e forse ancor prima con la pietra scalfita, paesi che ti osservano dall’alto e non capisci se fingono di dormire e osservano di sottecchi o se sinceramente riposano abbacchiati dalla canicola estiva.
Così è Enna, che fa provincia, ma non se ne cura troppo e preferisce osservare i campi bruciare al sole. Silente, alta, giallognola come la crema dei suoi cannoli. Fatto sta che tutte quelle montagne e quei paesi aggrappati a speroni di roccia viva finiscono per disorientare. Poi arriva il mare, ma è un mare diverso da quello che si è lasciato, dove il sole tramonta all’incontrario e qualcosa, in definitiva, non torna perché quell’acqua salata ha pure cambiato nome. Se ci si allontana da un mare, si finisce in un altro mare. Che guarda altrove, ha nome, storie, colori e tramonti diversi.
Ah, il tramonto. Cefalù. Il colore delle case affacciate sul mare segue le bizze pomeridiane del sole. In alto le torri normanne della cattedrale sembrano richiamare le navi vichinghe dalla notte dei tempi. E la grande testa di roccia, lassù, a governare il tutto. E l’aria del mare che fa danzare le tende delle case e i turisti che scattano e vociano sulla spiaggia fine e dorata.
Seguire la costa, del resto, non è tanto meglio. Perché per quanto sia lunga, la Sicilia è pur sempre un triangolo e prima o poi tocca svoltare. Il mare rimane a sinistra, i monti a destra, o viceversa. Insomma, tutto è cambiato. Difficile. Non stupisce che Archimede, che fu molte cose, ma prima di tutto un matematico, vide la luce e operò a Siracusa. Ortigia, o Siracusa. C’è differenza, lo so. Ma che strana mania quella di chiamare le città con nomi diversi. Non è da meno Ragusa, che una parte è Ibla e guai a dire che vai a Ragusa se invece vai poi a Ibla. Vabbé. Siracusa è un’enclave greca incastonata nell’isola. Se accostando la Sicilia alla Grecia vi viene in mente Taormina, no, siete fuori strada. Il teatro con vista sul mare è una degustazione di Olimpo, certamente, ma poco più in basso la città è sì bella quanto fighetta. I greci non erano gente da Trussardi e Prada. A loro interessava pensare a come vivere e scannarsi al meglio, idealizzare i gesti e tramandare il bello. E poi pensare e scannarsi, da capo. Una tunica poteva anche bastare per tutto ciò. Siracusa invece è fottutamente greca fin dal nome. E poi è più bianca rispetto alle altre città. In certe ore anche un po’ abbacinante, direi. Siracusa protesa sullo Ionio come un uccello ormai cresciuto che tuttavia non ha perso l’abitudine di tendere il becco verso la madre lontana migliaia di nodi e migliaia di anni.
Un punto di riferimento occorre sempre averlo. Conviene allora sostare a Messina, la grande sfortunata a cui il terremoto ha tolto forse la storia ma non certo la dignità. Messina è una gamba della Trinacria, un cardine, una porta di accesso severa e ferma. Vi si mangiano granite buonissime e arancini prelibati. Ci si arrampica al Cristo Re e si guarda di là, dove chiunque, dopo migliaia di chilometri, si è dovuto fermare. Si potrebbe partire dalla Lapponia e scendere giù rapidi fino a qui, ma poi, davanti a Messina, occorre fermarsi. Visigoti, Vandali. Gente senza remore, insomma. Però qui pure loro hanno dovuto sostare. Messina ti fa pensare. Messina è una metafora della vita. Le cose le hai a portata di mano. Eppure raggiungerle non è così semplice quanto si potrebbe credere. Scilla e Cariddi sono sempre in agguato.
A Catania sembrano convergere molte cose. Le strade, innanzitutto. E il caldo, soprattutto. Catania ha un aspetto squadrato e severo, tremendamente barocco. Pare nobile, eppure l’anima è decisamente popolare. Città dagli odori insistenti e dalle Madonne in vetrina, decisamente la più ispanica del lotto. E probabilmente la più ricca. Da Catania, alla fine, tocca sempre passare. E lei propone le sue mercanzie, il pesce e gli ortaggi, i manufatti e i servizi. Ha occhi ovunque e guarda lontano, Catania. Anche l’elefantino davanti a Sant’Agata, a dire il vero, pare avere occhi pure nel culo.
Uno spigolo dell’isola, quello più a sud, è occupato dal ragusano. Che, direte voi, se sta così a sud sarà anche spoglio e desolato. E invece no, la Sicilia non è mai banale e un bel po’ del suo verde ha deciso di piazzarlo qui, a ridosso dell’Africa.
Ragusa è un gioiello, una roba che riappacifica con i propri simili. Se hanno fabbricato questo, tutto sommato, c’è speranza. Ragusa è la speranza che fa capolino dal vaso di Pandora, la città figlia di un terremoto devastante. Una prece: non dite che Ragusa è un presepe. Sicuramente lo avete già detto per Matera. La Sicilia, come detto, non tollera tali banalità. E manco le merita.
Di aerei ne passano tanti sopra l’isola. Un mattino me ne stavo in un bar vicino al mare a infilare la brioche nella granita al pistacchio. Ero dalle parti di Marzamemi. L’acqua aveva tanti colori e le onde formavano creste di schiuma che si scaricavano educatamente sulla battigia. La moderazione è sempre apprezzata in Sicilia, anche per quanto riguarda le onde. Il vento scuoteva le frange degli ombrelloni sulla spiaggia. Era aria fresca, piacevole. Pensai allo scirocco dei giorni precedenti, mentre il pistacchio mi dipingeva i baffi di verde pastello. Tutti qui hanno timore dello scirocco. Anche più dei saraceni. Lo scirocco sferza il viso con invisibili lapilli e toglie il respiro. Lo scirocco è una cosa simile alla depressione. Ma come tutte le cose, lo scirocco passa, scorre via. E tutto era delicatamente vitale in quel mattino siciliano. Adoro il pistacchio, è sincero e persistente. Un tintinnio, forse lo sferragliare di un pupo schermito dal vento, forse una delle tante suggestioni dell’isola. In alto un aereo, uno dei tanti. Lo osservai, ma la luce del cielo a sud è così intensa da far stringere le palpebre fino a rendere impossibile la vista. E poi forse non era un aereo. Solamente un ricordo di una delle tante vite precedenti.
Quanto è buono il pistacchio in Sicilia.