Il giorno in cui Mickey morì e nacque di nuovo
Il giorno in cui sarebbe nata sua figlia lo aveva immaginato molte volte. Altrettanto numerose erano le frasi che aveva pensato di scrivere su facebook e non di meno le cose che aveva creduto di poter fare la sera stessa o come si sarebbe comportato nei giorni successivi. In talune circostanze i pensieri si erano a tal punto proiettati in avanti da fargli immaginare le prime settimane di vita della bambina quasi per intero. Eppure, quando quel giorno arrivò per davvero Michele Simoni, per gli amici Mickey Blonde, non trovò di meglio che osservare il padre del neonato nella culla a fianco di sua figlia. Era davvero un personaggio come ce ne sono tanti pensò, con la barbetta curata e i capelli giusti. E proprio non riusciva a capire cosa trovassero certe donne in personaggi così banali. Di che poteva parlare, dopo un orgasmo, un personaggio così insipido? Con che pathos e intonazione avrebbe letto a suo figlio la favola di Barbablù o le avventure di Topolino? Questi erano i pensieri che circolavano nella testa dell’uomo, mentre dall’altra parte del vetro, tra una decine di culle asettiche, la figlia emetteva i primi vagiti.
E tuttavia i mesi della gravidanza della compagna, Mickey li aveva trascorsi in un misto di paura ed esaltazione. Nei primi mesi aveva dominato la paura. Aveva fortemente desiderato questa paternità e, una volta ottenuta, un infausto presagio gli aveva incatenato i pensieri. In verità non c’era alcun motivo per cui Mickey, nè tanto meno la moglie, belli, sani e robusti, potessero essere portatori di tare genetiche. Eppure l’educazione cattolica alla quale era stato avviato in tenera età lo aveva portato a introiettare un tale senso di colpa che era sfociato in una negatività assoluta verso tutto ciò di buono che la vita gli potesse offrire. Seduto sulla panchina della fermata del bus, mentre le auto sfrecciavano da una parte e l’altra della carreggiata, lo sguardo assorto sulla riga di mezzeria, Mickey pensava ogni mattina al povero Mosè al quale, pur essendosi tanto sbattuto per portare il suo popolo nella terra promessa, un singolo errore aveva precluso la possibilità di vedere Israele. Poi, dissipato il dubbio sulla salute della nascitura, Mickey era entrato in uno stato di esaltazione tale da fargli dimenticare ogni cosa terrena. Tutto sommato, pensava Mickey tra sé mentre camminando porgeva il volto a un sole invernale in realtà piuttosto spento, le cose del mondo finiscono sempre per risolversi al meglio. E pure le persone che aveva sempre detestato e i programmi TV che aveva sempre schifato e le banalità che aveva sempre avversato gli parevano avere finalmente acquisito un senso. Pareva, a chi ben lo conoscesse, che a quel ragazzo i medici avessero sostituito il sangue con la serotonina.
La prima sera nella sua nuova veste di padre Mickey la passò da solo, nella casa dove viveva con la moglie. A nulla erano valsi gli inviti degli amici a festeggiare e dei parenti a circostanziare. In verità Mickey, dieci minuti dopo la nascita della figlia, quando le cose attorno a lui avevano ricominciato a prendere forma e in testa i cumulonembi si erano fatti cirri e le parole si erano articolate sulla punta della lingua, aveva sentito un bisogno impellente di stare da solo. Persone che faticava a riconoscere gli si accalcavano attorno e lo baciavano e abbracciavano e Mickey sentiva ad ogni bacio e ogni abbraccio un peso sempre più grande sulla nuca. Mentre quella gente lo inondava di buoni sentimenti ed emozioni forti, a Mickey pareva di vedere sé stesso dall’esterno e quello che vedeva non era il Mickey di oggi, statura medio alta, capelli scuri ramati di bianco, rughe di espressione sulla fronte e la barba corta e volutamente non curata. No, in verità era così piccolo da sembrare un bambino. Anzi, era un bambino. Era lui da bambino. Aveva i capelli con la riga a sinistra e la cravattina nera e tutto composto subiva le belle parole e i sorrisi di parentado e affini. Era il bambino nella foto che la madre conservava sul comodino, quello che aveva appena ricevuto la Cresima e una valanga di attenzioni non richieste.
Mickey sentiva ad ogni bacio e ogni abbraccio un peso sempre più grande sulla nuca
Mickey accese la Tv. Era esausto. Gli pareva di aver corso una maratona o aver lavorato due giorni di seguito o essere volato giù dal balcone di casa. Gettò il sedere sul divano e aprì le braccia. Si guardò la pancia. Era cresciuta in questi nove mesi. Aveva dovuto rinunciare a un sacco di cose, anche alla corsa. Il telefono squillò e Mickey rispose senza nemmeno guardare chi fosse.
– Ciao Mickey. Stai bene? – Era Emma, sua cugina.
– Ciao Emma. Sì, tutt’apposto. Dimmi pure.
Alla TV un tipo americano con i baffi elaborava un’auto a tal punto da renderla ridicola.
– Ascolta, tua mamma era un po’ in paranoia. Dice che ti ha visto strano, che forse non stai bene o hai avuto un qualcosa per l’emozione. Boh, io non mi sono accorta di niente. Che mi dici, va tutto bene quindi?
Mickey si accarezzò il ventre. Doveva buttare giù qualche centimetro, pensò.
– Sì Emma, tutt’apposto te l’ho detto. Mi è venuta, che so, stanchezza. Ho dormito poco… mi è scesa la tensione e…
– Sicuro tu non voglia che io passi un attimo da te? Ascolta, mia madre ha voluto comprare una cosa, non ho manco capito cos’è. Sì, che poi io le ho detto che ti ha già comprato mezza casa per la bimba ma sai bene quella com’è…
– Che cosa? Cos’è che ha preso?
Solo allora Mickey pensò che non aveva dato la solita occhiata alla stanza della nascitura, come aveva preso abitudine a fare ogni giorno negli ultimi mesi. Si era svaccato sul divano in sala, tutto qui. Non ci aveva nemmeno pensato a cosa ci fosse dall’altra parte del muro. Mickey abbandonò Emma al suo tentativo di decifrare il regalo della madre. Tutto ciò che comprese del discorso della cugina era la parola angelo. Poi anche quella telefonata gli divenne insostenibile e decise di portarla a termine.
Fissò la spia verde del televisore. Gli angeli non li aveva mai potuti compatire. Non avrebbe saputo dire in cosa consistesse il regalo, sempre che Emma glielo avesse detto, ma di angeli in casa non ne voleva avere. Spostò lo sguardo alla finestra e là fuori, da qualche parte, vide ancora il bambino che fu. Era in un cimitero, era estate ed era appena piovuto. Era un cimitero di paese, le lapidi erano datate e in pietra, per lo più ricoperte di muschio. C’erano tombe di bambini morti negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Ognuno aveva il suo angioletto che piangeva e pregava e ancora piangeva e le ali erano cinte di muschio e le foto dei bambini erano in bianco e nero e pressoché illeggibili. Poi arrivò un adulto, forse un parente, e gli disse qualcosa e quel qualcosa era pietoso e non era quello che andava detto. Era una frase del cazzo, una pietosissima frase del cazzo! Non hai altro da dirmi che una pietosissima frase del cazzo? Sono un bambino, questo angioletto mi fa paura, lo vedo sulla mia tomba, mi fa tutto schifo e paura, l’umidità e i morti e i bambini morti male di freddo e di miseria e voi che non mi dite quello di cui ho bisogno e non mi fate fare quello che va fatto e fanculo al tuo pietismo cazzo! Questo avrebbe voluto dire, ma era una storia di tanto tempo fa. E poi lui non ci poteva più fare niente.
Gli capitò sotto gli occhi il telefono. Quando Emma lo aveva chiamato non si era nemmeno preoccupato di chi lo stesse cercando, come se non gli fosse nata una figlia il giorno stesso, come se non potesse essere successo niente di grave in ospedale. Si coprì la fronte con il palmo della mano e provò un senso di vergogna che in qualche modo lo destò dall’inattesa apatia in cui la sua anima era precipitata in quella strana giornata. Si alzò e andò davanti al comò, dove sua moglie aveva allestito quello che lui chiamava “il tuo cazzo di altarino”: una serie di foto personali che Mickey volutamente considerava con sufficienza.
C’era un portafoto ancora vuoto con un coniglietto in cornice. Non ci aveva mai fatto caso. Meticolosa come sempre, pensò. Accarezzò il coniglietto con l’indice. Sempre meglio che un angioletto. Sorrise. Non lontano dal portafoto che attendeva un’immagine della nascitura, ce n’era un altro con una foto di Mickey da bambino. Smise di sorridere.
Si fece cupo in viso e rimase ad osservare la foto a lungo. Poi sospirò e le labbra si inarcarono in un leggero sorriso. Sentì tutta la pesantezza di quella giornata abbandonarlo e un senso di leggerezza si propagò nello sterno e accarezzò il basso ventre. Forse quel bambino era morto per sempre. O forse era nato, di nuovo e meglio. Anch’esso.
(Immagini tratte dal web)