Il fascino discreto di essere Bruce Banner
Da piccola ero ossessionata da Hulk.
Mi ricordo i sabato mattina nel lettone dei miei mentre partiva la sigla d’inizio del telefilm con Lou Ferrigno: era un momento mistico in cui pativo immensamente nel vedere l’uomo, Bruce Banner, condannato dalla trasformazione in mostro. La scena che più mi impressionava era quando sotto un diluvio, di sera, bucava la ruota: la telecamera inquadra il protagonista, bagnato fradicio, con il cric che gli salta in mano, si fa male a un dito, la maledetta ruota bucata della stramaledetta macchina non riesce a essere tolta e quindi che fa? Iniziano a colorarsi gli occhi di verde smeraldo, gli trema la mandibola, gli trema il corpo, inizia a sentire un fuoco dentro di lui, si gonfia tutto il corpo, si strappano le vesti e zan!
Si trasforma in Hulk.
Poi iniziavo a piangere perché la leggenda vuole che io fossi terrorizzata dal mostro verde e quindi si susseguiva un piccolo rituale in cui veniva spenta la televisione per poi riaccenderla sotto mia urgente richiesta. Io non ero terrorizzata da Hulk.
Forse stavo soltanto visualizzando ciò che sarei diventata col tempo.
Mia figlia mi chiede, qual è il tuo colore preferito, mamma?
Il verde, rispondo.
Un giorno, seduta ad un caffè, sto perdendomi in lunghissime spiegazioni su cosa significhi essere un genitore secondo il mio modesto parere.
Devi pensare agli argini e all’Hulk, dico ad una mia amica. Funziona tutto se hai una diga che argini la piena. Non capisco, mi dice lei.
Prima di avere figli sei come un oceano, dico. Non ci pensi ma è così. Ti senti immensa a perdita di occhio, volubile alle maree e alle correnti, sai che spesso ci sono le tempeste ma, diciamoci la verità, sei mai stata in mezzo al mare forza nove?
No, la mia amica non ha mai visto il mare forza nove.
Poi rimani incinta, partorisci, dico.
Un giorno qualunque guardi l’orologio e ti rendi conto di non usare la doccia da circa 48 ore, inoltre non ricordi di aver fatto un sonno continuativo che sia durato più di un’ora da quattro anni a questa parte. Hai nelle braccia un fagotto che piange disperatamente ma con il quale si è rotto ogni canale di comunicazione circa tre ore fa. Hai la febbre.
Quella mattina ti eri alzata e come un bravo marinaio avevi capito che ci sarebbe stata una tempesta nonostante il cielo vagamente sereno. Avevi intuito che oggi sarebbe stata una giornata alla Bruce Banner, insomma la classica giornata di merda.
Ci saranno degli argini, scusa le divagazioni, le dico, e se tutto va bene questi ti tratterranno dal diventare il mostro verde che fa piangere i bambini. Quindi per riassumere, la maternità è più o meno lo stato del Bruce Banner sotto la pioggia il cui unico strumento di salvataggio sarà una diga a cui ancorarsi per evitare la piena (o nel peggiore dei casi per sfasciare catarticamente una macchina) e che non deve per nessuna ragione al mondo diventare Hulk.
So che tante persone sono incredibilmente pazienti, le dico io. Hanno davvero un’aria che tu non gli daresti un soldo alla loro rabbia.
Ma cerca di visualizzare questo servizio militare in cui non dormi, mangi sempre quello che è rimasto, freddo, ti fai docce di trenta secondi al gelo perché il bagno sarà spesso aperto e tutti entreranno ed usciranno, la tua schiena sarà continuamente a pezzi, dovrai accompagnare qualcuno al bagno quando stai per perdere l’aereo o la cena sta per andare a fuoco, dovrai trattare per ogni cosa con una persona testarda come o peggio di te.
Dovrai fare finta almeno cinque o sei volte al giorno di rispondere a telefoni immaginari e di mangiare zuppe squisite da contenitori vuoti o con miscugli poco identificati. Ripulire murales da ogni superficie della casa e fare sembrare poca cosa il tuo cellulare nuovo di zecca dentro al wc; scoprirai inoltre ceppi influenzali che non sapevi neanche esistessero sul pianeta terra e che ti renderanno per circa sei mesi l’anno una larva umana. Non entro neanche nel merito delle feste ai gonfiabili e delle chat di classe su whatsapp.
La pazienza di chiunque avrà sempre un limite.
Nel mio caso si preoccuperà a farmelo superare (tante volte al giorno) uno di quegli esseri umani che ho procreato e che mi farà ricordare con tenerezza il capo slavo dello studio dove lavoravo mentre, alle nove del mattino in un inglese minaccioso, pretendeva la consegna del progetto.
Io lo guardavo languida perché ancora soffiavo romanticamente sul mio cappuccino mentre pensavo alla birra della sera prima e al corso di yoga del venerdì e così farfugliavo di quanto fossi stressata e di come tutto lo scenario mi sembrasse di un’ingiustizia mortale perché ancora non avevo bevuto il mio caffè, né scrollato distrattamente le email del computer.
Ora Bruce Banner non beve più caffè.
E le email?, mi chiede lei.
Mai più lette, rispondo io. Devo ancora firmare petizioni per salvare animali estinti cinque anni fa.
Per riassumere mia cara, diventare genitore ti farà conoscere il fascino discreto di essere Bruce Banner e la necessità impellente di costruirti una diga, un argine, che ti trattenga dal diventare Hulk. Tutto qua.
Il mini fagotto disperato continua a urlare e io continuo a cullare. Guardo dalla finestra e da lontano scorgo le luci notturne di una casa, mi fanno subito pensare a un luogo bellissimo dove sono andata una volta in vacanza quando ero molto giovane.
Con gli occhi verdi, la mascella e il corpo tremanti, gonfia (perché non c’è mai il tempo di andare in bagno), le vesti mezze strappate e le vene del collo fuoruscite, sussurro:
Mr mcgee don’t make me angry you wouldn’t like me i’m angry.