L’ape regina must die
Lina ha il vizio di tenere i biscotti troppo a lungo immersi nel latte, così che quando li alza dalla tazza per portarseli alla bocca non le rimangono da ingoiare che poche briciole tra l’indice e il pollice. Lina non se ne accorge. Guarda oltre la finestra e vede ombre muoversi nell’appartamento dirimpetto al suo. Le luci dei fanali delle auto rimbalzano come pallottole. Il mattino non ha ancora fatto il suo esordio. La sorellina cerca la sua attenzione, ma a Lina di sua sorella Fatima interessa assai poco. Fatima non sa niente. Fatima ha il bavaglino e emette suoni che assomigliano a parole. Talvolta piange e altre ride. Stop. Lina allontana la tazza per posare i gomiti sulla tavola e il viso sui pugni. I lampioni, là fuori, iniziano a cedere le consegne alla grande palla di fuoco. Sempre che riuscirà a fare capolino tra la coltre di nubi e smog. Il sole in Egitto era un Dio, hanno detto a scuola. Lina lo ha detto a mamma e papà. Non dice mai niente di quello che succede a scuola, ma questo si perché papà e mamma sono nati in Egitto. A loro questa cosa del sole non è piaciuta e anzi la madre voleva prenderla a ciabattate nel culo perché di Dio ce ne sta uno solo e guai a chi ne parla a sproposito. “Io sono l’ape. L’ape regina”. Questo ha detto Silvia, la settimana prima, a carnevale. L’ape regina. Lina fissa la luce di un lampione e vede un’ape regina di nome Silvia.
La madre di Lina ha il vestito nero che le copre tutto il corpo e un culo enorme. Lina lo fissa mentre lei, intenta a cercare i vestiti per le figlie, borbotta in arabo parole che sanno di sabbia, di Nilo e di rabbia verso il padre che in casa non fa nulla. Lina pensa che un Dio visibile come lo è il sole abbia più senso di un Dio che ha novantanove nomi diversi e nemmeno un corpo. La madre le infila un maglione e le striglia i capelli lamentandosi dei riccioli e benedicendo il giorno in cui anche Lina vestirà l’hijab, il velo che copre i capelli. Ecco, se c’è una cosa che terrorizza Lina è proprio quella. Quel maledetto giorno in cui le faranno mettere l’hijab segnerà la sua resa definitiva. Fine. Eccola l’ape regina trionfante con i suoi boccoli castani e i fermacapelli fucsia e tutto il suo reame attorno. Eccola Lina e il suo fazzoletto in testa e manco uno che più la considera. Lina chiude gli occhi e prova a scacciare il pensiero. Poi quasi si addormenta seduta sul letto e la madre le fa levare il sedere dal materasso con un raus che inizia in arabo e termina in italiano.
Lina è la prima a salire sullo scuolabus. Appoggia la fronte al finestrino e guarda il suo quartiere svegliarsi. Lina adora inventare le vite di quelle sagome che si stagliano nella luce di vecchi appartamenti. Questo è uno di quei motivi per cui preferisce il buio del mattino d’inverno alla luce di primavera ed estate. L’altro motivo è che si sente più protetta, meno esposta alla luce. Quando sale Silvia il sole è già sopra i tetti delle case. Ed è tutta un’altra cosa. Prima che salga Silvia due maschi hanno già preso posizione vicino a Lina. E Lina lo sa. Lo sa e stringe forte le palpebre per cacciare il pensiero. Poi guarda fuori dal finestrino e vede costruzioni fitte, alveari che contengono centinaia di persone. Solamente piccoli anfratti di luce tra un condominio e l’altro. La luce c’è. L’ape regina sta per salire.
La maestra dice che un vettore è un organismo che porta un altro organismo, ad esempio un batterio o un virus, da un corpo a un altro e tutti noi siamo vettori. Anche senza volerlo. Lina osserva la lavagna e poi abbassa lo sguardo sulla mano di Silvia, che le siede nel banco a fianco. Silvia non è un vettore. Io sono un vettore, Silvia no. Lina osserva la mano della compagna di banco. Ha le unghie smaltate e le dita ben proporzionate con il palmo. Poi osserva le sue e le trova adunche, sproporzionate. Marco, dal banco davanti al loro, si gira in continuazione per attirare l’attenzione. La maestra lo sgrida e lo prende in giro dicendogli che alla fine dell’anno gli regalerà un poster di Lina e Silvia. Marco è rosso di vergogna e chino sul banco. Silvia è raggiante e il suo orgoglio pare un fiume straripante in ogni dove. Eppure la piena si infrange al confine con il banco di Lina e cade inesorabile nella fessura tra le due scrivanie. Perché tutti ridono, ma Lina no. Lina lo sa. Non è un poster di entrambe che andrebbe regalato a Marco, ma solo di Silvia. Lina è solamente un vettore. La lavagna dice che a sinistra ci stanno gli organismi patogeni, poi una bella freccia con scritto sopra Vettore e infine a destra ci sta l’ospite definitivo. Lina apre il diario e disegna con il pennarello blu una freccia con sopra il suo nome. Poi chiude il diario, che nessuno deve vedere, e strizza le palpebre. Ma poi le urla della sorellina, il nervosismo della madre, tutte quelle immagini sacre della Mecca, la foto della bambina intenta a pregare con il Corano in mano che tanto l’aveva sempre inquietata.
Se c’è una cosa che a Lina fa strano è quando le compagne di classe parlano dei loro genitori. Il papà mi ha detto questo e la mamma mi ha consigliato di fare quello. Il papà di Lina le parla poco e niente, la madre non consiglia: ordina. Di parlare a sua madre con il tono e degli argomenti di cui dicono le amiche, a Lina non passa per l’anticamera del cervello. E a dirla tutta, la cosa la mette anche un po’ in imbarazzo. Ci sono volte in cui Lina torna a casa da scuola ed è davvero a pezzi. La settimana scorsa era carnevale e tutti erano andati a scuola travestiti. Il padre le aveva comprato una maschera al negozio cinese, una cosa orrenda che sembrava a metà tra un gatto e un topo e a metà mattina Lina l’aveva pure dovuta gettare nel cestino perché le lasciava macchie blu sul viso. Silvia era invece uno splendore: un bel vestito da ape dai colori sgargianti, un po’ di trucco argento e nero sul viso a cesellare quegli occhi chiari e vividi. Gli sguardi tutti per lei e poi quella frase dell’ape regina. Come un ciclista che trionfante alza le braccia sul traguardo. Lina era tornata a casa che quasi non si reggeva in piedi. La più grande mazzata della sua ancor breve vita. Aveva salito le scale pensando che si, ora sarebbe entrata in casa e avrebbe vuotato il sacco e pianto per ore e finalmente tutti si sarebbero accorti del suo dolore. Ma poi le urla della sorellina, il nervosismo della madre, tutte quelle immagini sacre della Mecca, la foto della bambina intenta a pregare con il Corano in mano che tanto l’aveva sempre inquietata. Dopo pranzo Lina era sdraiata sul divano. Gli occhi sbarrati e lo sguardo perso sul battiscopa.
Lo scuolabus ripercorre la strada del mattino in senso contrario. C’è un bel sole e una luce intensa. Lina è l’ultima a scendere. Tutta la periferia scorre davanti ai suoi occhi. Particolari che il buio del mattino non le consente di vedere. Silvia è scesa. Come al mattino porta con sé la luce, al ritorno scendendo porta via gli schiamazzi, le grida e tutti quegli approcci primitivi fatti di canzonature e dispetti. Dopo Silvia il silenzio. Ad uno ad uno quei maschietti che prima parevano considerare Lina al pari di Silvia scendono senza nemmeno salutarla.
Lo scuolabus passa davanti ad un edificio abbandonato dove Lina nota una scritta bianca a bomboletta sul muro. Al mattino non ci aveva mai fatto caso. Forse il buio, forse il sonno. La parte iniziale della frase è illeggibile, poi Lina riconosce le parole finali: MUST DIE. Lina a scuola studia inglese, ma queste parole non le capisce. Prima di scendere si ferma un attimo di fianco all’autista. Lui la guarda come a chiedergli se c’è qualche problema.
– Che significa “must die”? – chiede Lina. E già ha un piede sul predellino del bus.
– Che qualcuno ha da crepare, bella mia – risponde l’autista senza guardarla, l’indice già sul pulsante di chiusura della porta.
Il mattino seguente Lina sbriciola i biscotti nel latte, osserva i lampioni e le sagome alle finestre degli appartamenti di fronte, ignora la sorellina e fissa l’enorme sedere della madre. Sale sullo scuolabus per prima, osserva il quartiere che si sveglia, vede i maschietti prendere le posizioni migliori vicino a lei e in attesa di Silvia. Eccola Silvia. Sorride, la bacia, le dice che le vuole bene. Un gran bene. Le parla e intanto attira tutta l’attenzione su di sé. E quelle stolide api operaie attorno, pronte a scannarsi per un cenno della sua attenzione.
Anche io ti voglio bene, Silvia. Però se muori è meglio. L’ape regina must die.