La casa del dolore di tutti
La strage di cinesi che avvenne in Messico fra il 13 e il 15 maggio 1911. Un fatto remoto? Non per Julian Herbert.
Messicano di fama internazionale, pubblicato in Italia da Gran Via, poeta, scrittore e musicista, Herbert ha fatto di questo massacro dimenticato da molti il fulcro di un’indagine approfondita. Ne ha cercato le tracce, ha scavato fra le fonti rimaste, ha girato sui taxi per chiedere ai conducenti cosa si narrasse a livello locale in merito a questa vicenda che è stata tramandata, manipolata, cancellata, riscritta. Ma che, di fatto, è e rimane la più grande strage di cittadini orientali mai avvenuta nel continente americano. Anche sotto la coltre d’ombra della Rivoluzione Messicana a nascondere le ossa e distogliere l’attenzione.
“La casa del dolore altrui”, tradotto da Francesco Fava, racconta proprio questo: l’autore non usa un mero tono giornalistico, perché renderebbe l’accuratezza ma non lascerebbe trasparire la passione con cui si è calato nella ricerca minuziosa di ciò che è rimasto di quell’orrore nella cittadina messicana di Torreon.
Torreon è una località lasciata a in mano a se stessa, dove spopolano banditismo e prostituzione ma dove la religione ha una sua importanza, così come in tutta la nazione. E in questo misto di sacro e malavita la piccola comunità di asiatici infedeli, sin dall’inizio, non è ben accetta. Poi arrivano i papaveri da oppio, arrivano alcune intese commerciali, arriva il lavoro a condizioni pessime e, con questo, l’accusa ai cinesi di rubare l’occupazione agli autoctoni e di non integrarsi. Storia nota anche nella nostra fetta di mondo, seppure con volti e nomi differenti e un diverso colore della pelle.
È per questo che l’indagine di Herbert non riguarda soltanto una pagina già scritta di un paese lontano ma, se letta con occhi aperti sul mondo e una mente consapevole, tratta la storia che viviamo oggigiorno nelle nostre città. Proprio per questo deve risvegliare l’attenzione, l’allerta, la coscienza di come il seme dell’odio può germogliare fino a turbare gli animi e scaturire in mattanze arbitrarie e incontrollate.
Senza retorica, senza chiari riferimenti al razzismo di cui l’occidente è impregnato, Herbert racconta con lucidità i pezzi di rompicapo che ha messo insieme durante la sua indagine. È entrato negli archivi, ne ha trovati di saccheggiati, di bruciati, di inaccessibili, ma non ha ceduto. Lo si immagina con una lente d’ingrandimento e l’ostinazione di non lasciare che un simile scempio resti ignoto ai più. Riporta fonti di autori noti, Juan Puig su tutti, cita le fonti con chiarezza impeccabile, non cede a facili semplificazioni, non accetta la prima versione dei fatti senza prima confrontarla con ogni altra ipotesi. A chi sa poco o nulla della storia del Messico sono forniti tutti gli strumenti per non perdersi nella narrazione e orientarsi fra maderisti e porfiristi: non è intenzione di Herbert scrivere un saggio élitario, a spingerlo alla scrittura è un’urgenza comunicativa.
Contemporaneamente al report fattuale, infatti, l’autore manda avanti una narrazione ben precisa. La quale ci porta ad immaginarlo, quel primo giovane cinese che nel 1888 scese dal treno per mettere piede nella comunità di Torreon. È proprio tramite la narrazione di aneddoti e tramite gli approfondimenti, sparsi qua e là fra le pagine quasi fossero note a margine, sulle interazioni fra cinesi e comunità locale, che quando la vicenda arriva al culmine il lettore sente la potenza dell’odio. Lo si percepisce quando si leggono le barzellette sui cinesi, lo si preannuncia nelle battute da bar che Herbert riporta: lo scherno non è più soltanto scherno, ma antifona di qualcosa di più grande, scabroso. È quello stesso atteggiamento di sarcasmo che porta a ciò l’autore chiama “il permesso di trasgressione”, per cui dopo l’orrore del 1911 ogni vessazione inflitta ai cantonesi è giustificata in quanto di minore rilievo rispetto a quanto già avvenuto. “È così che funziona l’economia della crudeltà”, sentenzia Herbert.
Questa crudeltà riguarda tutti, perché risiede nell’animo umano. Per questo è giusto narrarla, per questo è giusto leggerla, per questo è importante tramandarne la narrazione. A maggior ragione se, a narrarla, è un cantastorie che sa farlo unendo poesia e obiettività. Quel dolore non è soltanto altrui, ma di tutti.