Cento metri dietro il presente
Giusto il giorno prima glielo aveva fatto presente. Era stato Jimmy, l’idraulico, a dirgli ciò di cui mai si era accorto prima. Aveva ordinato il caffè, si era diretto verso il tavolino dei quotidiani, strapazzato un paio di pagine del giornale locale senza leggerlo, quindi ci aveva messo sopra quello sportivo e aveva letto il titolo a caratteri cubitali, poi si era sfregato le mani e aveva alitato sui pugni come fosse inverno e freddo, si era sistemato gli occhiali da sole sul capo ed era tornato verso il bancone appoggiandovi entrambi i gomiti, mentre le gambe, tese come archi, parevano sul punto di sparare il busto contro la vetrina degli amari. Tutto nella norma. Jimmy aveva bevuto il caffè in una dozzina di fulminei sorsi. Aveva schioccato la lingua, risistemato per l’ennesima volta gli occhiali da sole sul capo e osservato il barista. Giusto due secondi.
– Sempre in quella posizione stai tu, oh – aveva detto con una voce arrochita da sigarette e caffè. E già aveva rimesso mano al quotidiano locale, mentre gli occhi ancora una volta se ne infischiavano delle notizie e vagavano tra il televisore e la vetrina che dava sulla strada. Jimmy, che scatta qua e là come uno spinone in cerca del cinghiale. Se n’era accorto pure lui.
Ed oggi Salvo, barista nonché titolare dell’omonimo bar del centro del paese, per la seconda volta si vede così riflesso, e un po’ deformato, nello specchio convesso del frigo dei gelati: la gamba destra sollevata e appoggiata sulla parte più interna del bancone, quella in acciaio, il busto reclinato di una trentina di gradi e sorretto dal braccio destro, la mano sinistra sulla parte alta del bancone, in granito, il piede sinistro a terra. Cerca i suoi occhi nel vetro del frigo, ma trova due fessure nere. Apre la bocca e fa una smorfia. Il movimento si percepisce appena.
Non c’è mai nessuno in questo cazzo di bar, inutile menarla, ecco perché alla fine mi ritrovo sempre in questa posizione. La posizione di uno che non ha un cazzo da fare, questa è. E lo dice ad alta voce, ché tanto il bar è vuoto. Si avvicina alla porta-vetro e osserva fuori. Sono le 14.30 e ormai dovrebbe passare Osvaldo. Lavora in comune, finisce alle 14 e viene a mangiarsi un panino al bar. Non ha famiglia e non sa che farsene di un’ora tra una timbrata e l’altra. Non sa nemmeno farsi una pastasciutta, a dire il vero. Personaggio neutro, privo di opinioni e spigolature di carattere, ma con una cadenza che a lungo andare risulta insopportabile a Salvo. Osvaldo inizia le frasi con tono regolare, poi le pause scompaiono, le sillabe si ammassano, il tono si fa più squillante e le ultime parole si confondono in una nervosa risata. Sempre. Salvo osserva l’acciottolato e pensa che, tutto sommato, se oggi Osvaldo non si presenta, è anche meglio. Si è svegliato male, Salvo. Non ha fatto il letto, non si è fatto la barba e una peluria ispida e canuta spunta sul mento. Si tocca le borse sotto gli occhi, le preme come si fa con il cellofan. Se Osvaldo non si palesa, meglio così.
Il sabato sera, talvolta, prendevano delle sbornie colossali. Iniziavano nel pomeriggio e andavano avanti fino a sera.
Il paese si svuota, le industrie sono lontane, i giovani vanno via per studiare e non tornano più, i vecchi muoiono e i negozi e le banche chiudono. Sulla vetrina del negozio davanti al bar di Salvo un’insegna sintetizza lo stato delle cose: Vendesi. C’era un cartolaio. Il titolare si chiamava Sauro e aveva una decina d’anni meno di Salvo. Visto che gli affari andavano a gonfie vele, passava più tempo al bar che nel suo negozio. Gli piaceva bere, e a Salvo pure. Gli piacevano un sacco di cose, a dire il vero. E a Salvo pure. Il sabato sera, talvolta, prendevano delle sbornie colossali. Iniziavano nel pomeriggio e andavano avanti fino a sera. Quando erano ubriachi facevano cose assurde tipo scambiarsi i ruoli: Salvo attraversava la strada e serviva risme di carta e penne rosse, il cartolaio spillava birre. Anni ruggenti. Salvo li ricorda con malinconia. C’era un bel gruppetto attorno al bar, a quei tempi. Ora è rimasto solamente Michele, un perdigiorno dedito a spolpare la pensione della madre. Non il migliore esemplare di quell’antico ensemble, a detta di Salvo. Ma questo è. Tutti spariti. Alcuni ogni tanto passano, bevono il caffè, rimembrano scene apocalittiche, se ne vanno. La cartoleria è in vendita, il cartolaio ha rilevato un negozio in città. Mi raccomando, keep on touch come dicono gli inglesi, Salvo. E lui a guardare la tazzina dell’ultimo caffè che il cartolaio avrebbe consumato nel suo bar. La bustina di zucchero aperta sul bancone, la punta del cucchiaino intrisa di granuli e caffè. Le braccia conserte e la bocca corrucciata.
Quando il marito lavorava, lei usciva con loro, faceva baldoria e chissà che altro.
Il periodo successivo a quelli che Salvo definisce gli anni d’oro, il bar continuò a lavorare comunque. Nel frattempo lo storico pastificio del paese, da tempo in mano a un fondo straniero, aveva definitivamente chiuso i battenti lasciando a casa, tra le altre persone, la moglie di Salvo. Lei a casa a fare la casalinga non ci si vedeva proprio e aveva deciso di dare una mano al marito al bar. Ora, sul rapporto tra Salvo e la moglie, si sarebbe potuto parlare a lungo. Lui, così diceva, stava molto meglio da solo. Che era un modo gentile per dire che la moglie gli provocava più imbarazzo e mal di stomaco che altro. Tuttavia con lei dietro al bancone il bar aveva acquisito una fedele clientela di morti di figa e sventurati vari con cui Salvo aveva poco da spartire, ma che la moglie sapeva intrattenere e spremere a dovere. Buona bevitrice anch’essa, amava stuzzicare la sua improvvisata combriccola con battute e doppi sensi da far accapponare la pelle a Salvo e incidere sul bilancio mensile allo stesso tempo. Gli astanti rispondevano a tono, talvolta le parole si spingevano oltre il dovuto. Salvo non era geloso. In definitiva, della moglie non gli interessava molto. Quando iniziarono a circolare voci riguardo alla di lei infedeltà, tuttavia, il suo orgoglio ne fu finalmente scosso. Iniziò a trattare male la combriccola dei fan della moglie, nonché ad alzare la voce con lei stessa. L’effetto di tale atteggiamento fu l’opposto di quello che si aspettava: la moglie si era legata maggiormente a quel gruppetto. Quando il marito lavorava, lei usciva con loro, faceva baldoria e chissà che altro. Alla fine si erano lasciati e lei si era messa insieme a uno di quella compagnia. Non era durata molto, a dire il vero. Quanto bastava per diventare la ex moglie di Salvo.
Una di quelle giornate in cui persino cambiare canale al televisore risulta faticoso. L’indice accarezza i tasti del telecomando appoggiato al bancone. Cambiare canale significa soppesare il contenuto delle varie proposte, fare scelte. Quando butta male, Salvo non svuota nemmeno il sacco dell’immondizia. Non pulisce nemmeno la macchina del caffè. Per la terza volta, quest’oggi si accorge di essere in quella che da ieri sa essere la sua solita posizione. Una coppietta occupa un tavolino di fronte al bancone. Lei è bionda tinta, ha trent’anni e parla di liti con colleghe che, Salvo pensa, rimarranno sempre nell’alveo delle intenzioni. Maneggia uno smartphone e usa i social network come fossero prove dell’accusa. Lui sorseggia la birra, accenna con il capo e fissa il pavimento. Quando lei fa una pausa, lui sposta gli occhi su di lei e aumenta il movimento del capo.
L’ultimo cliente della giornata è sempre Maurizio. Sessant’anni, parla sempre di pensione, ma alla fine non ci vuole mica andare per davvero. Caffè e ammazzacaffè. Il discorso contributivo si esaurisce presto, l’Inps è più volte maledetta. Maurizio cerca nello smartphone un qualche spunto per imbastire una effimera discussione, ma è stanco, deve cambiare gradazione agli occhiali e poi Salvo non gli pare in vena di fare discorsi. Paga, saluta e accende una sigaretta sull’uscio della porta. Ora Salvo è solo. Nessuno entrerà più per questa sera. Non un cliente abituale, non uno occasionale. Qui le sorprese sono morte da molto tempo. Salvo spegne la Tv e guarda il telecomando. Quando era bambino, i telecomandi non esistevano e i canali si cambiavano azionando una manovella del televisore. Salvo, vai a cambiare canale che c’è il comunicato, gli diceva il nonno. Viveva già lì e non gli passava nemmeno per la testa che un giorno quel paese sarebbe diventato un tale mortorio. Anzi, quel mondo fatto di una dozzina di incroci e crocicchi gli pareva davvero grande così com’era. La tecnologia, pensa Salvo, ci deve qualcosa in cambio. Internet ha le sue colpe se qui non c’è più lavoro. La gente compra online, i negozi chiudono, il paese dorme e la gente scappa. Salvo prende in mano la scopa e ci si appoggia come fosse una colonna. La spatola si piega sotto il suo peso. Forse un giorno, un rappresentante entrerà nel bar e gli proporrà un sistema di schermi ai tavolini e al bancone interconnessi con milioni di altri schermi nei bar di tutto il mondo. Uno entra in un caffè a Lione, ordina una birra e tramite uno di questi schermi si connette con il suo bar per chiacchierare con lui o altri clienti. Salvo guarda la réclame di una marca di gelati appesa al muro, il mento appoggiato sulla punta del manico della scopa. Il cartolaio, Carletto, Simone, Sergio. Ognuno collegato con il suo locale da un cazzo di bar cinese di città. Birre, bisboccia, puttanate. Come anni fa.
Il rumore della saracinesca si perde negli androni vuoti della strada deserta. Salvo accende una sigaretta, le spalle al bar chiuso. Quel giorno forse verrà, pensa, ma il rappresentante troverà un bel cartello “Vendesi” appeso alla vetrina del bar. Come quello che ha di fronte. E comunque, borbotta mentre si incammina, io i soldi non ce li avrei mica per tutto quell’ambaradan. Salvo è così, quando si sveglia male. Non si è fatto la barba, non ha mai cambiato canale alla Tv, non ha pulito la macchina del caffè, non ha cambiato il sacchetto del rudo, non ha spazzato in terra. La strada prosegue lunga e diritta davanti a lui. Eppure, mentre cammina nella desolante luce gialla di un lampione ormai antico, Salvo immagina sé stesso dall’alto di una delle finestre degli sgangherati palazzi che lo circondano. E vede un uomo stanco, che pare avere un muro di tenebra e non una strada davanti a sé. Quest’uomo fa una fatica tremenda. La testa è bassa e pare spingere contro quel buio denso senza risultato alcuno. Salvo cammina e tuttavia non pare avanzare di un metro. Davanti a sé, solamente un ammasso di oscurità. Dietro a sé, i lampioni emanano una luce calda, le persiane sono dipinte di fresco e aperte e le auto sono in doppia fila con le quattro frecce che lampeggiano. A Salvo pare di udire anche qualche schiamazzo. Vetri rotti, risate, bestemmie. Quel baretto cento metri dietro a lui. Giusto cento metri. Cento metri dietro al presente.