Lo strano caso di M e dello strefonio selvatico
Rimosse le forme quotidiane di straordinarietà, consuetudine necessaria per sopportare il disturbo, per M appariva normale essere metamorfico.
Nell’età matura, infatti, M aveva sviluppato un forte fastidio verso tutto ciò che risultava superfluo, fatta la giusta analisi. Levare, come nella musica, rappresentava l’azione giusta, la cosa da fare, come volesse comporre una talentuosa improvvisazione scarna, secca, quasi atonale, senza cadere però nella creazione del vuoto. Un quasi niente, ma ricco di essenza.
Per fare questo servivano medicamenti che riusciva a creare da solo, una bevanda che elaborava attraverso alchimie vaporose, misteriose sostanze, intrugli naturali della cui composizione solo lui conosceva la natura. Nulla di criminale: zenchio, sallena, peppenaco, favinaccio, zuccaccio e sacce, strofonio selvatico…
Sorseggiava quotidianamente il suo beverone segreto che lo rendeva forte, sicuro, felice e sorridente. Certo evitava di stare assai tempo nello stesso luogo e con le stesse persone, non frequentava luoghi chiusi troppo affollati e scansava di avviare lunghe conversazioni o scambi di opinioni su problemi del tempo attuale. Non perché M non riuscisse a tenere il passo della dialettica, ma soltanto perché questi conviviali gli erano indifferenti e noiosi, insomma una perdita di tempo.
Era felice e non c’era avvenimento passato, presente o futuro che potesse scalfire la sua allegra condizione.
Il suo tempo era qui, ora, adesso e lui al tempo si conformava, senza alcuna sofferenza.
M aveva attraversato, in tal modo, la folkloristica abitudine di affidarsi alle emozioni, adattandosi all’ambiente circostante; beneficiava del fatto che di lì a poco avrebbe cambiato di nuovo aspetto.
Governava la sua corporea macchina godendo dello spettacolo!
misteriose sostanze, intrugli naturali della cui composizione solo lui conosceva la natura. Nulla di criminale: zenchio, sallena, peppenaco, favinaccio, zuccaccio e sacce, strofonio selvatico…
La sera del teatro però fu un disastro:
Vieni, vieni, vieni
Ma non posso, non posso , non posso
Dai accompagnami vieni
Non posso
Che ti costa, almeno stiamo per qualche ora insieme
Ma se ieri siamo stati a casa mia?
Mi fai andare da sola?
Lo sai che non sopporto la folla
Abbiamo un palco, la Wally! Dai, per una volta, è solo un’Opera!
Fammi pensare. Si.
Avvenne tutto quel giorno. Lei gli sfiorava la mano ad ogni accenno andante della melodia.
Spiaggia, mare, gelato, doccia, carezze, spaghetti, caffè, finale “The bridge”, doccia, vestito, teatro.
Il teatro è sempre pieno e vicino e intorno si usa guardarsi, spiarsi, scambiare occhiate e respiri. Davanti e dietro sei circondato da una folla di persone sconosciute. Buio e caldo, bisbigli, profumi e ventagli.
Il loro palco sembrava una astronave in viaggio per la sopravvivenza, una nave spaziale lanciata nell’abisso. Lei gli sfiorava la mano ad ogni accenno andante della melodia.
Indietreggiò verso la porta e senza dire nulla scappò fuori nel corridoio ma, scivolando sul lucido dei marmi, si accorse che qualcosa non funzionava. Nella frenesia di quel giorno M aveva dimenticato la sua medicina e desiderò solo nascondersi.
Scosse il capo in cerca di una stabilità mentre la maschera, in divisa blu e sciarpa rossa, seduta in fondo al corridoio, lo osservava curiosa pronta a balzargli sopra per zittirlo e schiacciarlo con il tacco della scarpa disperdendo così ogni traccia della sua consistenza. Scattò in alto verso il soffitto e mentre le gocce di sudore stillavano verso il basso formando un rigagnolo che scolava giù in direzione delle scale, si fermò. Lì, nascosto tra le tende e i velluti rossi del soffitto.
Fu mentre sonnecchiava in quella posizione che accadde l’imprevisto.
Un suono, una musica. Come un respiro gli giunse dalla sala del teatro uno strano soffio di vento di violini placato da cinque rintocchi di corde che si adagiarono sul canto del soprano che intonò:
Ebben? Ne andrò lontana…
M trasudava ad ogni nota,
Come va l’eco pia campana…
M si scioglieva…
Là fra la neve bianca…
Là fra le nubi d’ôr…
Laddóve la speranza, la speranza…
M un fiume…
È rimpianto, è rimpianto, è dolor!
Fu la maschera a invocare aiuto. Il vigile del fuoco, di turno al secondo ordine dei palchi, chiamò i rinforzi. Di M non si trovò mai il corpo, solo acqua, tanta acqua.
L’opera si concluse tra gli applausi.