La prima settimana dell’anno di un uomo qualunque
– Sbarabau
Il barista cinese si volta. Ha il portafiltri della macchina del caffè in mano, i capelli incollati a sinistra, la pelle lucida sugli zigomi. Lo guarda e vorrebbe chiedere di ripetere, ma forse non sa bene che parole usare oppure quello che vorrebbe dire ce l’ha ben presente, ma in italiano non gli esce proprio. Poi capisce che qualunque cosa fosse quel suono non era rivolto a lui e allora sorride tirando ancora più a lucido la pelle attorno agli zigomi, si volta e batte tre volte il portafiltri sullo sportello dei fondi esausti.
L’uomo qualunque alza una mano, quasi a volersi scusare, poi la porta alla bocca e trattiene un rigurgito di vergogna. “Merda” pensa. Abbassa lo sguardo e osserva l’altra mano appoggiata sul bancone. È già la terza volta che emette suoni inconsulti da quando è suonata la sveglia, due ore fa. La prima sotto la doccia. Si è abbracciato e ha urlato una cosa che stava tra il no e il basta. Poi in auto, nel breve tragitto tra la casa e il bar, dalla bocca è uscito una specie di ululato. Per lui è normale tutto ciò. Non che lo faccia sempre, anzi, solamente quando la mente si fa largo nella nebbia di ciò che è stato, nei ricordi annebbiati da chupiti e vodka lemon, nelle boiate dette in un passato prossimo di cui vergognarsi. È l’unico modo che conosce per cacciare via la vergogna, schiacciare il grillo parlante, mondarsi da parole e gesti compromettenti. Lui lo sa e allora quando ricorda qualcosa della serata precedente tira un urlo e poi sta meglio. Il cinese no, lui non lo sa. Però è cinese, pensa. Questo lo tranquillizza. I cinesi lavorano, non pensano. Con i cinesi non ha vergogna. Lavorano anche il primo dell’anno, loro. Con animo sollevato lascia un euro sul bancone ed esce dal bar. Non saluta. Che tanto i baristi cinesi non gli frega un cazzo di essere salutati. C’è il sole e l’Uomo Qualunque decide di appisolarsi su una panchina. Ma poi in macchina cambia idea: si farà una sega e dormirà sul divano di casa.
Rientrato dal lavoro l’Uomo qualunque trova l’ascensore occupato. Stanco, si sente la testa pesante e le gambe, beh, le gambe gli pare siano divise in tre parti da due lacci emostatici: il primo tra cosce e ginocchia, il secondo un paio di centimetri sotto le ginocchia. Le spalle gli dolgono e lo stomaco sembra suonare uno spartito musicale con più pause che note. Fa le scale a testa bassa e si china così tanto che quasi gli pare di poter toccare gli scalini con la fronte. Ha i timpani stanchi e così finisce in bocca al Signor Cesare, il suo dirimpettaio. Se non fosse stato il tre gennaio e i suoi sensi non fossero ridotti a mo’ di una trincea di Verdun 1917, si sarebbe accorto della sua presenza e avrebbe atteso un pianerottolo sotto che il Signor Cesare entrasse nel suo appartamento. Il Signor Cesare ha sessant’anni, i capelli folti, spettinati e grigi, una tuta blu e nera marca Lotto che non cambia mai, una gran pancia e un magazzino di balle e sconcezze varie dentro una testa grossa come un pallone. Il Signor Cesare inizia a parlare e l’Uomo Qualunque cerca di guadagnare una posizione prossima alla porta di casa. Ma il Signor Cesare ha una difesa arcigna, oplitica.
– Allora passeggiavo per il parco, che a quell’ora ci sta pieno di buttane rumene. Anche moldave. Ucraine pure, mi hanno detto, ma non ne ho mai incontrate. Sono badanti, ma fanno pure le buttane – l’Uomo Qualunque sente un brivido lungo la schiena e subito un manipolo di gocce di sudore esce in avanscoperta lungo la fronte.
– Poi ne vedo una seduta sulla panchina con un vecchio di fianco. Quello stava messo a merda, rimbambito del tutto. Allora ci faccio due o tre giri intorno alla panchina, la guardo, la fisso un po’, ci guardo anche le puppe. C’avrà avuto una cinquantina di anni, forse qualcosa in più – l’Uomo Qualunque pensa a sua nonna, a quando lo sgridava per la sua pigrizia e lo accusava di avere la colonna vertebrale di vetro. Lui non aveva mai capito cosa intendesse con quella frase, ma ora gli pare di avere l’intero scheletro di vetro. L’Uomo Qualunque è oramai convinto che da un momento all’altro il suo corpo imploderà, che lo scheletro di vetro si farà in milioni di pezzi e l’involucro di pelle, carne e muscoli finirà ammucchiato sul pianerottolo.
– Un bocchino. Un bocchino mi ha fatto quella buttana. C’ho buttato li venti euro e me ne sono andato. E quel rimbambito manco si è accorto di nulla. Quello guardava per aria. A bocca aperta guardava per aria.
L’Uomo Qualunque finge una risata e rimane con la mascella contratta, infila la chiave nella toppa della porta finalmente conquistata, e senza nulla dire, si getta dentro. Mentre la porta si chiude il suo corpo cade a terra. Il pavimento è freddo. L’Uomo Qualunque appoggia una guancia sul gres porcellanato e prova piacere. Arriva il gatto. Miagola. L’Uomo Qualunque lo guarda negli occhi. Ha ancora la guancia incollata al pavimento. Chiude gli occhi per qualche secondo e quando li riapre il gatto è ancora li e lo osserva. Miagola di nuovo. L’Uomo qualunque biascica una orribile bestemmia e chiude gli occhi nuovamente.
Il giorno cinque di gennaio l’Uomo Qualunque è seduto alla sua scrivania di lavoro. Ha il gomito sulla tastiera del PC e il pugno chiuso sull’occhio destro. Guarda distrattamente i sederi delle colleghe che passano lungo il corridoio dinnanzi alla sua scrivania, senza distinzione di dimensioni, età, stato coniugale. Si fa domande mute del tipo: cosa hai prodotto in questi primi sei giorni dell’anno? a cui fornisce risposte altrettanto afone come: un bel cazzo di niente. Sulla sua sinistra, una decina di metri dalla sua postazione, un collega parla al telefono. Un gioco di luci ne sdoppia la testa nel riflesso sul vetro dietro la di lui scrivania. L’immagine crea nella mente dell’Uomo Qualunque un’associazione con Giano Bifronte e questa lo ridesta. Sblocca il compromesso trovato con il corpo sulla tastiera del PC e si fionda in wikipedia.
Sono due giorni che l’Uomo Qualunque pensa a Giano Bifronte. Una faccia rivolta al passato e l’altra al futuro. Già, una faccia rivolta al passato, una al futuro e io in mezzo, pensa l’Uomo Qualunque mentre cammina per le vie del centro città. Si ferma a guardare le vetrine dei negozi con la merce in saldo, ma finisce sempre per guardare la sua immagine riflessa. Tutto sommato si piace. C’è di meglio, certo, ma per la strada si può trovare certi scarti di mercato che lo fanno sentire in posizioni per lo meno di Coppa Uefa. Solo che è gennaio e a lui pare di essere sul crinale di una montagna. Da una parte il passato, dall’altra il futuro. E gli pare, in questa immagine bifrontina, di mettere un passo dietro l’altro lungo lo stretto crinale, ma di non riuscire a indovinare un sentiero né da una parte né dall’altra.
Ma ciò che più pare ovvio all’Uomo Qualunque, in questa passeggiata lungo un crinale cittadino di vetrine ancora imbardate per il Natale e cani in cappotto, è il fatto che tutto ciò che a lui sembra impossibile, del tipo scendere dal crinale e imboccare un sentiero qualsiasi, pare naturale nelle persone che gli stanno vicine. Tutto sembra così semplice, pensa, con le scarpe degli altri. Io penso, accumulo terra sulle vette delle montagne, mi blocco. Quelli vanno come se fosse tutta pianura.
E da queste cupe visioni assediato, l’Uomo Qualunque entra in un grande magazzino. Qui spenderà almeno cento euro in vestiti piuttosto comuni e uscirà più sereno di come è entrato. Smetterà di pensare agli altri e dimenticherà pure il crinale in cui dice di trovarsi. L’Uomo Qualunque per qualche ora si sentirà nuovo, diverso, come investito da una fresca ondata di ottimismo. Che in fondo è un uomo e pure qualunque.