Bye bye Ibiza
Il fatto è che hai sempre avuto quel nome lì, ispanico ed insulare quel tanto che basta. Un altro fatto è che mi sto rivolgendo a te come se tu fossi un essere dotato di ragione e non lo sei manco per nulla. Un ultimo fatto è che amo pensarmi come un sognatore intento a lottare contro i mulini a vento. Ma anche sommandoli insieme tutti questi indizi non fanno di te il mio destriero, un Ronzinante duepuntozero di un Donchisciotte zeropuntoebasta.
O forse sì, perché, a dirla tutta, mi hai portato in giro in lungo e in largo per molto tempo; sono dieci anni oramai. E se bastasse questo, meriteresti una promozione sul campo, peccato che tra le nostre imprese non ce ne sia nemmeno una che possa sembrare un’avventura degna di nota poetica.
Soltanto il tuo nome, Ibiza, si porta dietro immagini di spiagge invernali desertiche, fredde di brezza mediterranea, dove c’è siempre fiesta in tutte le altre stagioni dell’anno (eccetto che in questa), gente alla rinfusa, odore di sale e balli caraibici, cocktail martini, tette culi e olio abbronzante a tinchitè.
Ma tu sei un’Ibiza d’acciaio e plastica dura, motore e quattro ruote: niente che non sia quotidiano e banale, che forse non è neanche il caso di farla così lunga. Sto salutando, insomma, un’auto pronta alla permuta. Sei solo una macchina, in fondo. Ho sempre creduto che nessun oggetto meritasse questo genere di attenzioni. Eppure.
Qualche sera fa, sotto una nevicata fitta, delicata, ho poggiato le mani sul volante e ti ho guidato fino a casa, pensando che era una delle ultime volte. Ho avuto l’impressione di stare apparecchiando un saluto che mi ha fatto pensare. La memoria si deposita sulla superficie delle cose che ogni giorno utilizziamo. Raccoglierla lì dove è intrappolata non è affare da poco. Raccoglierla e metterla in ordine, darle il peso che merita. Certo, spesso gli oggetti ci ingannano con una promessa di felicità che non possono realizzare. Sono trucchi che conosciamo anche se continuiamo ad essere, senza ritegno, consumatori seriali di questi inganni. Ma mi pare che ci sia un segreto diverso, nascosto tra le particelle di acciaio e di plastica di cui sono fatte le cose.
Mentre li usiamo gli oggetti raccolgono frammenti della nostra vita. Tradotti in atomi di memoria, i nostri gesti, le nostre parole, i nostri odori e umori attraversano le cose con cui abbiamo a che fare ogni giorno. Succede qualcosa come una stranissima osmosi.
Così saluto questo ultimo pezzo lungo della mia vita e prendo un’automobile a pretesto. Prendo a pretesto questi centosessantamila chilometri fatti insieme. Metà del viaggio per arrivare alla luna, se li avessimo percorsi soltanto nella direzione giusta di un decollo.
A volte mi sembra, in verità, di essere già in volo e spero con forza di aver intrapreso il viaggio nel modo in cui andava fatto. Senza dubbio si può viaggiare nello spazio anche senza spostarsi di un millimetro, aggrappati alle proprie certezze o alle proprie paure, ma credo che questo non possa bastarmi.
So che i chilometri che mancano alla luna potrei anche non percorrerli mai. Ma questo pensiero privo di respiro si cristallizza e diventa così duro e vero che mi fa quasi paura. Ho ancora miliardi di cose da fare. Miliardi da pensare, miliardi da sperare. Devo raggiungere Marte, gli anelli di Saturno, superare Giove, Nettuno, Plutone, oltrepassare il sistema solare. Altro che un semplice allunaggio. E c’è gente da portare con me, non sono solo.
Per questo si cambia. Per questo custodiamo memorie e andiamo avanti. Per questo adesso ci vuole una navicella spaziale, un quasi suv delle stelle, un’astronave magari francese (che fa sempre più chic), un’Aircross che incroci le nuvole, più alta e capiente, chè la famiglia è cresciuta e vuole sfidare insieme tutti i mulini a vento dell’universo.