Un libro sul comodino
Un libro in saccoccia ce lo mette sempre. Non si sa mai, dice, e intanto controlla allo specchio il livello del tartaro tra gengive e corona. Non si sa mai, e abbassa la testa per l’ultimo risciacquo. Lei è nella stanza da letto, davanti allo specchio del comò. Lo sente parlare, ma non capisce. Cerca il buco nel lobo destro, quindi infila l’orecchino e chiede: Cosa? Poi controlla quanto la mano sia stata ferma nel disegnare l’arco sul labbro superiore. Può andare. Apre la bocca. Un incisivo rosso.
Niente, risponde lui.
Va bene, fa lei. Qualsiasi cosa abbia detto, va comunque bene. È tardi. Passa l’indice sull’incisivo sporco di rossetto, agguanta la borsa, infila le scarpe, prende le chiavi, saluta e va.
Lui controlla l’orologio sul comodino. Presto. Almeno cinque minuti sono in avanzo. Non ha mai imparato a gestire i tempi morti. Anni prima, aveva vent’anni o poco più, un sabato notte era tornato a casa un po’ ubriaco e aveva acceso la TV, forse per guardare le pubblicità delle linee erotiche sulle emittenti regionali o forse per smorzare la sbornia in una stupidaggine qualsiasi. Era finito su una partita del campionato argentino. C’era una squadra di nome Velez, aveva una maglia bianca e azzurra e vinceva uno a zero. Doveva essere una partita importante. Il telecronista disse che il Velez non era abituato a gestire il vantaggio e quell’ultimo quarto d’ora di gioco sarebbe stato da tregenda per i biancoazzurri. Quelle parole avevano reagito con la molecola dell’alcool e subito si era creata una certa empatia con la squadra argentina. Poi lui si era addormentato a cinque minuti dal termine e il Velez aveva subito il pareggio. Entrambi non avevano saputo gestire quella manciata di minuti. Ancora oggi, a più di dieci anni, lui guarda i risultati del Velez ogni lunedì mattina nella app calcistica del suo smartphone.
Entrambi non avevano saputo gestire quella manciata di minuti
Seduto sulla sponda del letto non di sua pertinenza osserva la stanza e si accorge di come le cose cambino a seconda del punto di vista. Visto da qui, ad esempio, il quadro appeso giusto un mese prima non ha alcun senso in quella posizione. Non è neppure tanto bello. Aveva quindi avuto le sue ragioni, lei, ma non si era saputa spiegare. Fa cagare, gli aveva detto. Proprio così se ne era uscita. Era seduta sul letto, dove era lui ora e come lui torceva il collo per osservare quella parte di muro a cui dava la schiena. Fa cagare, davvero. Lo aveva voluto ribadire anche dopo aver riallineato la testa col busto. Lui si sentì in qualche modo umiliato. Lei sapeva l’intenso legame che si creava tra lui e gli oggetti che sceglieva. Colpire loro per affondare lui. Ne era scaturita una lite furibonda. Se solo mi avesse chiesto di sedere accanto a lei e guardare il quadro da qui, pensa lui ora. Le labbra accennano if, se. Ma nella mente non c’è quella parola, bensì il troia che aveva esclamato al culmine della lite e per il quale lei non gli aveva rivolto la parola per tre giorni.
Di fianco alla radiosveglia c’è un libro. Il suo libro. Quello che lui aveva passato a lei. Aveva amato quel libro. Aveva persino riletto il capitolo tredici, una volta finito. Poi lo aveva posato sul petto e aveva osservato il soffitto per alcuni minuti. Quindi aveva letto di nuovo la prima e l’ultima pagina e un nodo scorsoio gli percorreva il tratto piloro-epiglottide manco fosse un bus di linea. E ancora il libro si era posato sul petto e lo sguardo sul soffitto. Quando si era infine deciso a mettere il libro sul comodino, gli occhi erano rimasti a lungo intrappolati nella luce dell’abat jour. Il giorno dopo le aveva consigliato di leggere quel libro. Glielo aveva ripetuto almeno tre volte. Lei controllava il soffritto con il mestolo di legno e faceva cenno di sì con la testa. Ma non si era voltata nemmeno per un attimo e forse non lo aveva manco ascoltato. Allora glielo aveva praticamente imposto.
Te lo metto sul tuo comodino. Ok?
Va bene.
Te l’ho messo sul comodino. Lo leggi, allora?
E lei aveva fatto ancora una volta cenno di sì e la cipolla sfrigolava e la luce del neon sopra il piano cottura rendeva il suo volto un chiaroscuro da cui non emergeva emozione alcuna.
Accarezza la copertina e per un attimo riesce a immaginare quelle stesse emozioni nel corpo e nella mente di lei.
Lui prende il libro tra le mani e sorride a pensare quanto quelle pagine lo abbiano emozionato. Accarezza la copertina e per un attimo riesce a immaginare quelle stesse emozioni nel corpo e nella mente di lei. Ancora quel nodo scorsoio, forse un po’ più piccolo, lo attraversa al pensiero della potenziale traslazione da lui a lei. C’è un segnalibro. Apre. È sulla prima pagina del capitolo tredici. Dove lo aveva lasciato lui. Due mesi sono passati da quando lui lo aveva appoggiato sul suo comodino. Due mesi o forse più. E nemmeno lo ha mai preso in mano. Forse la polvere si è raccolta attorno alla sagoma del libro. Forse ci ha appoggiato la tisana che è solita portare a letto la sera. Lentamente lo appoggia sul comodino. Le mani sulle ginocchia, lo sguardo all’orizzonte come quello dei faraoni scolpiti nella pietra. Il nodo scorsoio si è fatto in mille pezzi. Mille gelidi pezzi.
La radio gracchia i suoi jingle tra una canzone e l’altra. C’è meno traffico del solito eppure arriverà in ritardo. Aveva cinque minuti di bonus e se li è bruciati. Come sempre. Cerca di impegnare la mente in cose stupide e tuttavia il gran dittatore dal suo trono nella scatola cranica sempre lì lo porta: un tempo lei divorava i libri che le consigliava di leggere. Scuote la testa, batte la mano sul volante, impreca con il semaforo rosso, guarda alla sua sinistra. Una ragazza alla fermata del bus scrive con lo smartphone. “Odio tutti” recita la cover.
Io invece invidio tutti, dice lui. E abbozza un sorriso. Sposta lo sguardo sul pomello del cambio. Invidio tutti, ripete. Triste, solitario e finale.
Triste, solitario y final. Il libro che doveva mettere in saccoccia. Dimenticato. Rimasto sul comodino. Il suo. Una sorta di contraltare al grande scandalo scoperto poco prima dall’altra parte del letto. Due libri, uno per ogni estremità del letto. L’ultima immagine che gli passa davanti prima di timbrare il cartellino è la porta della città assira di Ninive. Alle estremità ci sono due lamassù, i mostri alati scolpiti nella pietra. Sono lì da tempo immemore, a guardia della città. Poi arrivano i persiani, che dei lamassù non hanno né paura né rispetto.
E Ninive non ha più ragione di esistere.