Storia di ansia, limoni e mongolfiere
Ricordo che matematica era di giovedì. Allora avevamo due maestre, una per le materie umanistiche e l’altra per quelle scientifiche. Ginnastica non ricordo. Cioè, qualcosa ricordo. Uno strano pavimento di gomma nera, un cavalletto in pelle che aveva un che di erotico, un quadro svedese gigante, un finestrone che dava su un condominio. Rosso, mi pare. Chi ci insegnasse a fare stretching no, non mi è dato ricordare. Il giovedì, comunque, la maestra umanistica era di riposo. Quell’altra fumava, rantolava e spiegava la matematica disegnando frutti alla lavagna. E io, la matematica, avevo deciso di non capirla.
Quindici anni dopo, appartamento di studenti. Non mio. Foto posticce fissate su armadi di formica sfondati dal tempo e dall’incuria giovanile, ritagli di giornale a coprire muri sbiancati. Quell’odore a metà tra l’umido e il marcescente nella cucina dove il rubinetto vibra, i tubi gorgogliano anche a riposo, le ante dei pensili fanno le bolle e la ruggine insidia in più punti il piano cottura. Un alone di calcare ricorda il livello medio dell’acqua nella vasca da bagno, un libro di chimica organica appoggiato sulla tazza del cesso suggerisce il prossimo esame dei tuoi coinquilini. So che ti dovrei dire qualcosa. Tu dici che io sono chiuso e io penso che sia la stanza, invece, a stare troppo tempo chiusa. Dovresti cambiare aria con maggiore frequenza e poi ci fumi pure dentro e non dire di no perché le coperte non mentono mai. Tu menti, io mento, le coperte no. Tu parli, io non parlo, le coperte nemmeno. Sento freddo, ma solo alle dita di mani e piedi. Guardo la coperta. È in pile, è viola e non mi aiuta, ma è sempre meglio che guardare te. Non parlerò, non dirò nulla. Lo so già. Ti basterebbe una parola, lo so, e invece tutto rimarrà tra l’aorta e l’intenzione, come sussurra il Cd che ho messo su per dare voce a parole che ho deciso di non trovare. Il sole è sceso, il freddo è importante e lo si può vedere attraverso le finestre. Gli spifferi, non li senti gli spifferi?
C’è un limone sulla lavagna. Finché è uno soltanto va bene, non ci sono problemi. Poi i limoni diventano due. Poi tre, quattro, cinque. Vedo la mano della maestra riempire le sagome degli agrumi con un gessetto giallo. Sei, sette. Perché ha scelto i limoni per la tabellina del sette? Con il cinque erano arance ed era andato tutto liscio. Con il sei le banane e qualcuna era andata giù di traverso. Per quanto riguarda il sette la mattina stessa decisi che non lo avrei capito. Avevo chiuso lo stomaco e i biscotti erano rimasti nel latte. Un po’ avevano galleggiato e poi erano sprofondati. Così avevo fatto io. Un po’ avevo seguito, poi qualcosa mi aveva assalito. Non da fuori, da dentro. Come una mongolfiera, dal piloro aveva raggiunto la testa e l’aveva occupata. Per me la tabellina del sette era finita lì. Non ci avrei più capito nulla.
Lasciami andare, fa freddo e ho la ruota davanti sgonfia. È buio e mi hanno fregato la dinamo. Cosa ci fanno con una dinamo non saprei. È successo ieri, dopo l’allenamento. No, non ho niente da dire. Ti ho detto della dinamo, ora lasciami andare. Non chiamarmi l’ascensore, stai lì che prendi freddo, io inforco le scale a scendere e al terzo scalino già tu avrai chiuso la porta e immagino sulle tue labbra un vaffanculo che so di meritarmi. Siediti sul letto, avvolgiti nello scialle orribile che ti sei messa sulle spalle per accompagnarmi alla porta e guarda le luci nei condomini dirimpetto alla tua stanza. Io avrò già le mani sul catenaccio della bici, la bocca coperta dalla sciarpa e quella mongolfiera che mi era salita fino alla testa nella tua stanza si sarà oramai dissolta.
Sette quattordici ventuno ventotto. La tabellina del sette si perde nella lana della sciarpa. Trentacinque quarantadue quarantanove. A turno una mano tiene il manubrio e l’altra si riscalda nella tasca del giubbotto. Cinquantasei sessantatre settanta. Mi sembra impossibile non averla imparata allora. Forse un giorno mi sembrerà impossibile non aver trovato le parole poco fa. Ho ventanni, un po’ di barba sulle mascelle e i jeans strappati sulle ginocchia. Ho una linea di mongolfiere tra il piloro e la testa, i pensieri mi rimangono impiantati nell’aorta. Ma sono curioso e un giorno mi alleerò con il mio ego e andremo a caccia di mongolfiere armati di fionde e limoni.
E ho imparato la tabellina del sette. Da solo. Dopo la scuola.
E imparerò a parlare. Da solo. Dopo di te. Perché se noi usassimo la mongolfiera, invece che inerti subirla, se noi la ascoltassimo, vedremmo come il mondo è un grande agrumeto e noi piccoli, deliziosi, limoni con una bella buccia resistente e un sapore intenso e ognuno diverso.
E il treno passa fendendo la notte e il freddo con il ferro e le luci oblunghe dei finestrini e io sono quello là davanti, già oltre il cavalcavia, che pedala su una bici sgonfia e senza luci.