Cronache di vita (?) da un paese abbandonato
Un ché di sacro e inviolabile lo si percepisce già adocchiando le prime case di un paese abbandonato. Quelle che presentano una facciata sul piccolo spiazzo adibito a parcheggio, intendo. Solitamente sono due e talvolta si trova pure una cascina. Anche qui c’è una cascina. Ha le mura in cemento, è assai piccola, nessuna finestra, una entrata a saracinesca arrugginita, un tetto in lamiera con quattro sassi alle estremità per evitare che il vento dei monti se lo porti a valle. Nel muro a sasso di una delle due case si trova lo spazio per i manifesti elettorali: una serie di rettangoli delineati da una linea bianca tracciata a pennello e un numero, anch’esso a vernice, per ogni riquadro. L’ultima volta che questi muri hanno visto un manifesto partitico s’era ancora ai tempi dei simboli floreali. Ora è rimasta un’edera che cinge tutta la casa e con le sue foglie copre il 3, il 4 e il 6. Non si tratta di una trovata pubblicitaria del partito repubblicano, ovviamente.
Dicevo: c’è un che di sacro e inviolabile. È vero. Il parcheggio è tutto per me. Spengo il motore e con un gesto repentino del braccio destro pure la radio. Apro la portiera e, una volta uscito, uso garbo nel richiuderla. La sacralità è una cosa che ho sempre legato all’anima. Un tempo credevo che l’anima fosse una specie di camera d’aria che poi, una volta morto, sarebbe volata in cielo come un palloncino gonfiato a elio. E tutti i miei pensieri, affetti e ricordi dentro.
Ci sono storie che il tempo non ha conservato e ricordi di cui nessuno si è fatto portatore.
Credo che i greci di una volta, quelli un po’ prima di Platone e un po’ dopo Omero per intenderci, la pensassero come me. Poi sono andato in crisi, mi sono fatto razionale e per tanti anni non ho riparato la camera d’aria della mia bicicletta. Oggi, nel mezzo del cammin della vita mia, ci ripenso a quest’anima. Ci penso mentre davanti allo specchio osservo i pori dilatati sugli zigomi o mentre sono in coda in auto o mentre guardo i raccattapalle giocare a torello nell’intervallo della partita. Fatico a credere che tutto sia psiche. Voglio pensare che siamo anche altro, qualcosa che non appartiene a questa vita, ma forse, e perché no, a vite precedenti. Voglio pensare che nella nostra squallida individualità siamo in realtà un’ecumene di cose che sono state in altri luoghi e in altri corpi e ci è dato percepire tutto questo solamente in parte.
Ecco, immaginiamo un vecchio paese abbandonato. Tipo questo. Residenti non ve ne sono più. Non stabili, per lo meno. Eppure ci sono le bici ridotte a ferri vecchi di bambini divenuti uomini altrove, le case che hanno visto nascere e morire e infine solamente morire persone, le chiese che hanno sposato e i cimiteri che hanno raccolto lacrime e corpi. Ci sono storie che il tempo non ha conservato e ricordi di cui nessuno si è fatto portatore. Rimangono il cigolìo degli infissi ormai divelti e le pietre in mezzo alla via, gli alberi dentro case in cui sono rimasti in piedi solamente gli stipiti e figure apotropaiche scolpite nella pietra e nel cuore da chi aveva paura più degli spiriti che degli uomini. Rimane questo e qualcosa di non tangibile, anche. Parole nel vento: fame, pecore, Madonna, Argentina, castagne, polenta, soldi. Nomi. Preghiere. Bestemmie.
Alcune viuzze del paese sono lastricate, altre sono a piagne e altre ancora rese impraticabili da vegetazione e rovine di case crollate. All’occhio del cittadino, abituato alla centuriazione romana, queste vie strette e impervie possono risultare irrazionali. Nei paesi di montagna gli unici piani regolatori erano il mulo e la bena: se passavano quelli, la strada era funzionale. Gli spazi larghi sono un lusso che chi vive su una superficie verticale non può permettersi. Un antico lavatoio ricorda l’anno del restauro: 1998. Francia campione del mondo, penso. Stranamente, il lavatoio è ancora in funzione e posso vedere sulla superficie il mio viso deformato dalle onde create dal getto d’acqua. Alcune case sono state restaurate e fungono da rifugio per cittadini in fuga da cappe estive e per tedeschi bucolici. In montagna ci si rifugia e dalla montagna si fugge. È sempre stato così, fin dai tempi in cui goti e bizantini avevano scambiato la penisola per uno scannatoio. O come quando i tedeschi, i nonni di questi qui di adesso, si erano messi in testa di ripulire il mondo a modo loro. Poi, finito il pericolo, dalla montagna si parte. E senza troppi complimenti. In fin dei conti, una storia molto meno statica di come la si suole raccontare.
L’imperatore era un tedesco. In questi paesi di montagna i tedeschi c’entrano sempre.
La chiesa è nel punto più alto del paese. Che poi è dieci metri sopra quello più basso. Dio vuole stare sempre più in alto di tutti. Gli costruisci un paese e lui vuole la casa più in alto. Gli costruisci la casa e lui vuole lo scranno più in alto. Gli costruisci una torre alta come lui e quello te la butta giù e per giunta ti fa parlare centosei lingue diverse. Mi siedo sui gradini e osservo le piagne del sagrato. Sono pochi metri quadri, ma è pur sempre uno spiazzo. Un dono di Dio, si direbbe. Un tempo era l’unico fazzoletto di terra pianeggiante. Poi sono arrivate le macchine e hanno sfidato Dio creando un piccolo parcheggio. Lui si deve essere arrabbiato molto, ma i tempi di Babele erano finiti da un pezzo e quindi niente distruzioni e nessuna nuova lingua coniata per l’occasione.
A delimitare il sagrato davanti alla chiesa un muretto e oltre il muretto uno strapiombo. Forse l’inferno. Da una parte la chiesa e dietro essa i monti superbi e magnificenti. Dall’altra la vertigine, la vegetazione fitta e oscura. Paradiso e inferno. Mi appoggio al muretto, concedo il mio di dietro a Belzebù e la fronte all’Altissimo. Il cellulare ha rete e c’è pure una connessione internet. Google è in vena di scherzi. Mi vorrebbe suggerire i locali più frequentati del paese. Cimitero escluso. A suo dire ci sono pure alcune richieste di lavoro in loco. Sorrido. Poi finalmente mi concede due notizie storiche. Giusto due: la prima citazione del paese in un documento storico e il nome dell’imperatore che concesse un non so cosa e soprattutto non so a chi. L’imperatore era un tedesco. In questi paesi di montagna i tedeschi c’entrano sempre.
Prima di salire in auto do un ultimo sguardo. Le case in piedi e quelle crollate, la chiesa su in alto e le montagne ancor più su che sono roccia nuda e viva, il verde scuro che tutto ingloba e non dà né pace né sollievo. Il vento urla e gorgheggia giocando a salire e scendere le gole, sfiorare le case e colpire le fronde rigogliose. C’è qualcosa di sacro e inviolabile. La vita qui è spirata, ma l’anima freme ancora nel borgo abbandonato. Un corvo mi osserva dal tetto della casa cinta dall’edera. Gli restituisco uno sguardo miope mentre pulisco gli occhiali nella maglietta. Ho iniziato a visitare questi paesi che ero un bambino. Allora c’erano solamente donne anziane che mi sembravano tutte mia nonna. Avevano il fazzoletto in testa, le facce scavate, le mani dure e un marito morto anni addietro di troppo lavoro o forse di troppa vita.
Io tifavo per questi paesi. Andavo a casa e giocavo a immaginare la loro resurrezione. Giocavo così forte che dopo mezzora già c’erano coppie che sfornavano bambini e si tracciavano le linee di un campo sportivo e qualcuno apriva un bar e qualcun altro appendeva i manifesti elettorali all’entrata del paese. E c’erano pure i tedeschi, ovviamente. E alla fine ero stremato, illuso e felice. Gonfio come una camera d’aria.