Dove eravamo rimasti
Dove eravamo rimasti?
Eccoci qui. Non ci siamo ancora detti tutto.
Per dirsi tutto ci vogliono due polmoni così e una buona dose di incoscienza, lo so.
Per di più ne ho già piene le scatole dei miei finali a sorpresa e non mi accorderei nessun credito se io fossi in voi.
Ma io sono in me, almeno fino a quando il Buondio non deciderà il contrario, e perciò voi fate un po’ come vi pare. Che di vivere a credito non c’è morto mai nessuno, per quello che ne so, e mi ci adatto bene se qualcuno mi fa la cortesia.
E poi c’è un punto che continua a non tornarmi.
Troppe cose di noi accadono senza che nessuno se ne accorga. Per questo motivo Dio deve esistere, diceva uno.
Non può essere che quello che viviamo vada disperso nel silenzio infinito del multiverso che ci circonda, dico io. O, peggio ancora, che si trasformi nel chiacchiericcio continuo in cui siamo irretiti, cinguettati, instagrammati, lovvati, piaciuti o volutamente ignorati.
Dio esiste, senza dubbio, ma quello che scrivo stavolta riguarda innanzitutto me.
Sto piangendo, qui dentro, da più di qualche ora.
Non è che la condizione del pianto sia la mia condizione abituale. Sono uno normale, uno che per lo più sente la vita scorrere, gli impegni, le pause, gli affetti, i problemi, tutto quanto come tutti insomma. E come tutti gli adulti che si rispettano non ho bisogno, di solito, di fare scorrere lacrime di nessun genere. Mi basta che scorra la vita.
Eppure se un uomo buono, alle sei del mattino, si volta dall’altra parte e gli si ferma il cuore, ecco, ho da versare lacrime per lui. Per il suo amore delicato, timido, discreto.
Un uomo buono è morto stamattina ed era sangue mio, era mio zio.
Non riesco a non piangere per l’amore che sento per lui e questo significa che lui mi ha molto amato, di un amore silenzioso, di quelli che strappano il cielo in due e fanno scrosciare una pioggia di lacrime.
Oggi c’era una luce pazzesca, per tutto il giorno, su tutto lo stivale isole comprese. Una luce che è stata lì a salutare un cielo profondissimo. Non ci credo che le coincidenze siano solo coincidenze. Lo zio si è illuminato ed è volato via alle prime luci di questo mattino.
Adesso non riesco a dormire e vado considerando quanto tempo è trascorso dall’ultima volta che ti ho visto e baciato, zio. Penso all’ultimo saluto. All’ultimo silenzioso e piccolo atto d’amore che mi hai regalato. Io so per certo che Tu sei vivo, zio. Nessuno riuscirà a convincermi del contrario.
Ma certo c’è qualcosa che ancora non capisco.
Il cielo notturno oltre la finestra aperta, oltre questo balcone, il cielo oltre le case qui di fronte, oltre l’orizzonte delle Alpi, il cielo dal quale scende il vento leggero e carico di umore che mi accarezza fresco la pelle, questo cielo che respira dovrà un giorno spiegarmi molte cose.
Adesso brontola lontano, dopo giorni di caldo si prepara a una rincorsa che diventerà pioggia fra un attimo soltanto. Pioggia a cancellare tracce sulla terra. Pioggia ad asciugare lacrime.
Un giorno finalmente, questo cielo d’autunno, chiarirà ogni cosa.
E mi dirà chi tiene insieme, dentro di me, quella cosa che si chiama vita. Una colla fragile, sottile. Un legame pronto a spezzarsi e sciogliersi accarezzato solo da pochi gemiti della natura. Eppure così potente e coraggioso da far alzare sui due piedi un corpo di bambina che un istante prima gattonava.
Sento che una morsa invisibile m’incatena all’energia che scorre nelle vene, a quella che adesso mi suggerisce le parole, uno stare saldo dentro mentre sono gettato fuori in ogni attimo, un legaccio che stringe forte con un nodo tenue. Ma come fa?
Sempre pronto a chiudersi questo sipario sulla commedia, sempre pronto a svanire il nostro melodramma in uno strepito silente.
Qual è l’anima nascosta di questo muoversi, scalmanarsi delle forze che ci abbracciano per poi lasciarci andare? Cosa è la vita che vediamo circolare attorno a noi? Quella che afferriamo dentro? Cosa è quella che vediamo scomparire?
In questi giorni Sturm und Drang (la primogenita e la seconda) ci stanno facendo impazzire per l’energia dei loro cuori che centrifuga ogni nostra più piccola certezza. Ogni residuo della nostra salute mentale, intendo dire.
Drang (la piccola) ha dovuto subire pure un infortunio per l’amore sconsiderato del suo caro padre che non poteva fare a meno di sbaciucchiarla quando proprio non avrebbe dovuto. Il troppo amore ci ucciderà, diceva Freddie Mercury. Il suo braccino me ne sarà per sempre grato, lo so. Lei intanto cammina con la sua andatura da bullo del quartiere e mostra di saperla già lunga, dall’alto del suo anno e due mesi di vita, mentre muove con noncuranza la fasciatura al gomito. Ha sempre l’aria di una persona molto importante, intenta a sfuggire al predominio inesorabile della legge di gravità.
Io mi sento uno straccio a tutto tondo, non vi sto a dire, mentre osservo esterrefatto questo spettacolo.
Ma poi decido di cullare un pensiero virile, dentro di me: preferisco, se proprio deve essere, e deve senz’altro essere, che noi, tutti quanti, si riesca a morire per il troppo amore piuttosto che per nulla.
Credo che questa sia l’unica cosa che conta veramente.
Che la terra ti sia lieve, zio Lillo amatissimo. E che il cielo, profondo e luminoso, ci sia per sempre amico.