Gianclaudio. Aspettando il pesce fritto
Una breve nota prima di lasciarvi al racconto che segue, prodotto di finzione con cui ho deciso di dilettarmi anche qui su facciunsalto.
La rubrica mantiene il nome storico perché resta intatto anche lo spirito: l’obiettivo è sempre quello di allietare le giornate di voialtri lettori.
Qualche volta lo farò recensendo spettacoli, iniziative, libri; altre volte raccontandovi impressioni e personaggi che colorano la mia mente.
Questo racconto è ambientato in una casa di Padova dove vive un numero indeterminato di coinquilini e in cui uno di loro sta per lasciare la casa.
Domani mattina Gianclaudio parte: gli ho proposto una birra d’addio al parco della Musica.
Dovevamo aggiornarci ma non ci siamo aggiornati e io al Parco della Musica non sono più stata.
Affinché si possa meglio comprendere la sorpresa melancolica del mio indomani mattina, è bene perdersi in una meritata digressione sul personaggio di Gianclaudio.
Due mesi fa Gianclaudio ha scongelato la mia cena di emergenza, ovvero una pizza margherita: dopo averla cercata ovunque, l’ho trovata in camera sua, stesa sulle lenzuola del suo letto. Nel suo involucro di plastica, perdeva pezzi di ghiaccio che si riducevano in acqua che colava sul pavimento. Non avrei dovuto cercarla fin lì, ma trovandola ho capito che non potevo fare altrimenti: varcare la soglia di quella stanza e farmi spazio nel suo giaciglio angusto per riappropriarmi con diritto dei miei averi. Ormai però il disco era sorprendentemente simile, nella consistenza, ad una fetta biscottata inzuppata.
Pazienza.
Una settimana prima della sventura della pizza, Gianclaudio aveva deciso in autonomia che nessun prodotto importato da paesi arabofoni potesse essere stanziato nelle dispense della nostra umile dimora in via Selvatico. Sparirono così i miei formaggi siriani, ragion per cui decisi di ripiegare su una pizza surgelata come alimento emergenziale, non senza indicibile rammarico per quei prodotti caseari che, dopo aver varcato frontiere intercontinentali, non sono mai finiti fra le mie fauci.
Pazienza.
Il contratto al nord, meglio se a tempo indeterminato, per esempio, si festeggia con una cena a base di pesce in cui ogni invitato vale un punto e il punteggio auspicabile è dai cinquanta in su.
Gianclaudio è fatto così: arrampicatore sociale a modo suo, impermeabile ai sentimenti nostalgici di noi coinquilini che si presentano nel mio caso sotto forma alimentare e, più precisamente, casearia.
La scalata sociale è anzitutto arrampicata geografica che, dal profondo sud, porta i suoi adepti ad emigrare verso l’ignoto settentrione.
Ci sono dei punti fissi, nella scalata, dei pioli che li sfiori e diventano trofei. Il contratto al nord, meglio se a tempo indeterminato, per esempio, si festeggia con una cena a base di pesce in cui ogni invitato vale un punto e il punteggio auspicabile è dai cinquanta in su.
Gianclaudio ce l’ha offerta il 3 dicembre 2015, la prima cena di pesce, un mese dopo aver messo piede in casa. Siamo giunti in cucina con la bava alla bocca in seguito al generoso invito, indecisi se comprare o meno un vino, indossare o meno un pantalone invece del jeans. Del pesce, però, aleggia soltanto l’ingorda, seduttiva descrizione: totani fritti, impepata di cozze, spaghetti alle vongole, ananas. Ce li descrive nel dettaglio, Gianclaudio. L’ananas, col suo sentore esotico e l’inestinguibile, immaginario retrogusto di rum, richiama l’aristocrazia che forse un tempo fu. Proprio questo eccentrico frutto con ciuffo ci ha seguito, fantomaticamente, per i tre capodanni successivi.
Gianclaudio ha continuato a sollecitare le nostre papille gustative in una crudele serie di preliminari interrotti. Nessuno di noi ha mai capito quale sadismo lo portasse a evocare cibi che mai avremmo assaporato insieme, ma era chiaro che si trattasse di un rituale personalissimo e radicato. Abbiamo quindi smesso di interrogarci pur non immuni alla frustrazione che comporta sedersi a tavola con tre bastoncini findus davanti al naso e le mazzancolle in testa.
Ma la speranza è l’ultima a morire, quindi ci presentiamo puntuali ai rinnovati appuntamenti, aspettiamo il pesce manco fosse Godot. Forse ci crede anche Gianclaudio: ci saluta, fa un commento o due sul pesce, “preferite surgelato o vado a Chioggia a prenderlo fresco?”, poi lessa la pasta, la condisce con olio e parmigiano e scappa a lavoro con la divisa in borsa.
Su Facebook è amico di tutti, Gianclaudio, però il sabato sera sta a casa solo, chiuso nei suoi sette metri quadri da cui esce in pigiama con le sue promesse. Aveva compiuto trent’anni, il giorno della pizza inzuppata. Mentre il disco di pane e formaggio a pasta filata sgocciolava sul letto, il frigo era un tripudio di torte gelato e bottiglie di prosecco – metafora di un matrimonio strappalacrime tra un caldo meridione e un effervescente nordest.
Il compleanno.
Il compleanno è l’altro punto chiave dello scalatore sociale: gli hanno insegnato che in quel giorno si può intonare un inno alla vita e nutrire l’anima con pantagruelico, effimero sfarzo, che è bene saziarsi ma ancor meglio sprecare, fare uno sfregio alla vita e ai tempi di miseria. È sera e Gianclaudio torna dopo nove ore di lavoro per dire che si deve festeggiare allora ci sediamo attorno alla tavola e, senza margine di scelta, mangiamo. Lui scatta selfie, fa videochiamate giù, stappa il prosecco, si canta tantiauguri da solo e ci rimpinza con generose fette di torta. Non abbiamo nessun regalo per lui. Ci ringrazia e torna in camera.
Un giorno è astemio e l’altro no, Gianclaudio; con una Redbull parla da solo fino all’alba passando il mocio a terra in modalità Freddie Mercury fino a farsi male. Lo fa di notte, io dormo e sento soltanto il suo canticchiare e il manico che sbatte contro lo stipite della mia porta: lava e asciuga e per scrupolo lava di nuovo, capovolge sedie, sposta mobili, recita i suoi mantra anche se ormai da tempo neanche ai mantra crede più.
“Io sono il Re… E il tè piace al Re!”
Dopo una notte insonne, alle otto di mattina cuoce nuggets di pollo e ci chiede se per la cena di pesce preferiamo vino liscio o frizzante, se frittura o grigliata.
Ma domani Gianclaudio parte e il pesce insieme non l’abbiamo mangiato. La nostra birra al Parco della Musica è sbiadita col tramonto, stavolta a non mantenere le promesse sono io.
lo vedo dimenarsi nello scarto invisibile fra il suo mondo e il nostro, noi coinquilini disordinati e banali. Vorrei chiedergli incredula se veramente è stato al concerto da solo, ma lascio stare.
Ho seguito il vento e mi ha portato altrove, nel groviglio di corpi e umori che mi ha sottratto a questa pianura arida. Sono le 3.32 quando impugno il telefono per scrivere a Gianclaudio e vedo che mi ha scritto lui.
“Concerto fantastico, chitarrista fuori di testa, sballo a manetta top sorella.”
E io me lo vedo, Gianclaudio da solo che balla.
Dannatamente solo oggi come sempre, perso nelle giravolte, Gianclaudio che balla e sa ballare ma se non balli con qualcuno è solo una danza macabra; lo vedo dimenarsi nello scarto invisibile fra il suo mondo e il nostro, noi coinquilini disordinati e banali. Vorrei chiedergli incredula se veramente è stato al concerto da solo, ma lascio stare.
Non era solo, Gianclaudio, non lo è mai stato: sempre in fedele compagnia delle molteplici versioni di sé, dei suoi miraggi per il futuro, delle torte di compleanno annaffiate di prosecco e redbull, è in pista con le birre che non abbiamo bevuto, si scatena come se i compagni di gioco di una vita fossero attorno a lui, ci parla, parla da solo e non si aspetta risposta, si chiude in camera e taglia il mondo fuori per giorni e ripaga così le notti passate muto in ospedale a guardare vecchi che dormono e contare straordinari uno ad uno depennandoli dal calendario immaginario fino a che arriva l’ultimo, poi il posto fisso la commozione i discorsi ufficiali, le lacrime, gli abbracci, le sbronze; parla con le porte chiuse e i sogni calcati dentro come in valigie, pronto a ripartire, con le finestre aperte e Freddie Mercury e gli avi che non ha conosciuto, parla di ananas e pesci nei corridoi verde acqua del reparto deserto e io immagino questa folla e un rigurgito di agorafobia mi coglie prima di accorgermi che sono sola su un letto che non mi appartiene.
Pazienza.
Sono le quattro meno cinque e scrivo a Gianclaudio: “Domani mattina ci sei? Così ti saluto.”
“Sono già partito”, mi risponde alle cinque, “i soldi dell’affitto sono in cucina.”
Dormo quanto basta perché salga il sole, torno a casa, è ancora vuota. A quest’ora di domenica girava soltanto lui.
Mi ha lasciato una moka pronta, un bracciale di finto avorio con un bigliettino e 150 euro.
Gianclaudio non l’ho più visto, ma nella discrepanza fra i nostri universi ci intersechiamo ancora.
Ho pensato che, in un’altra lingua, il nostro avrebbe potuto essere quasi amore, ma ho lasciato che danzasse altrove senza neanche un addio.