Frammenti di Grecia (tre spunti alla fine del viaggio)
1- Atene ti guarda dall’alto
La cartolina di Atene è l’Acropoli vista dal colle del Libetto. Il Partenone, forse le Cariatidi, sicuramente il tempio di Atena. Un po’ di roccia sottostante e un quartiere tra i due colli. Di giorno, di notte, con il sole e con la neve. Sempre quello ti mostrano di Atene. Talvolta è solo il Partenone. Qualche altra c’è chi si spinge più a basso e ti fa vedere l’Agorà o Piazza Syntagma. Qualcuno gioca un po’ troppo con photoshop e prendendo come punto d’osservazione l’Acropoli stessa vi fa vedere il porto del Pireo e il mare Egeo. Non gli state a credere. La cortina di smog di Atene difficilmente prende ferie.
Io vi propongo una cartolina diversa. La collina è l’Aeropago, a fianco dell’Acropoli. Quello che vedete è il mare. Ma non è fatto d’acqua.
Atene è un mare di cemento, una cosa grande. Di quelle che ti addormenti in pullman e quando ti svegli credi che le case siano di un’altra città e invece sono ancora quelle di Atene.
Atene è figlia di Solone che la ordinò e di Pericle che la pensò come ci è stata tramandata, di Temistocle che la difese e di Demostene che volle continuare a crederla grande. E sticazzi, direi.
Atene, però, è figlia anche di un piano regolatore urbano folle. A metà ottocento faceva qualche migliaio di abitanti arroccati nella Platka, il quartiere sotto l’acropoli. Ora fa cinque milioni. L’Acropoli, meraviglia degli uomini per gli uomini, è un faro che da lassù ti segue ovunque, anche nella più infame e sperduta periferia. Atene è il caos che secondo gli antichi greci generò il mondo. Un caos di macchine e genti, odori e destini.
Atene è randagia. La gente che dorme per strada, i tossici che chiedono le monete in inglese e i turisti che gliele concedono, non foss’altro perché Socrate e Milziade, lassù sulla collina, osservano e giudicano quelli da basso.
Atene sono i gatti che dormono sugli spalti dei teatri dove Euripide e Eschilo misero in scena quello che sarebbe diventato il nostro modo di vivere e pensare. Atene è il fottutissimo porto del Pireo che ti accoglie con lo stadio dell’Olympiakos e i traghetti per le infinite isole dell’Egeo e ti saluta con il morso di un cane randagio. Forse rabbioso, forse no. Sicuramente arrabbiato.
Atene è un compromesso generato dal caos. Il cemento ha sommerso le chiese ortodosse, ma non le ha abbattute. Fuori si beve e si urla, dentro si prega. Fuori le luci delle auto e degli smartphone, dentro le flebili fiammelle delle candele. Fuori la prorompente bellezza delle donne greche, dentro il rassicurante volto della Madonna. Tutto è compenetrato ad Atene: il bello e il brutto, il sacro e il profano, l’antico e il moderno.
Atene va guardata dall’alto verso il basso. Perché da lassù, da Cilone e Clistene, bisogna pur sempre iniziare. Ma Atene è anche superbamente umana, vivida, anarchica, di una bruttezza che affascina.
Atene è prima di tutto un’idea. Lassù, sull’Acropoli che tutto osserva.
2- Gli inverni di Clitemnestra (Micene)
Se di Iliade e Odissea e eroi e canti d’armi non vi interessano una fava, non andate a Micene. Lasciate perdere. L’Argolide non è l’Umbria, troppo brulla e selvatica, Micene non è Pompei, troppo piccola e dilaniata dai millenni.
Oppure no, lasciate perdere quanto ho appena detto e andateci. Andateci nella stagione che vi pare, ma pensate all’inverno. Pensate cosa dovesse essere vivere, ai tempi di Agamennone e Ulisse, dentro quelle mura protette dai leoni della porta d’ingresso, in quegli anfratti rocciosi che erano case, templi e palazzi. Pensate alle torce accese nel primo pomeriggio di giornate buie e tristi e alle donne che mettevano a letto i bambini alle sette di sera. Pensate a quegli uomini che avevano solamente due possibilità: fare la guerra o sognarla. Perché hai voglia di dire che quella gente era sempre pronta a scannarsi. L’eternità, a Micene come a Sparta e Tebe, passava attraverso uno scudo e una lancia. Vita e morte. Non è un caso che Achille avesse scelto la seconda.
La storia di quella Grecia ancora più antica di Atene è una storia di uomini trafitti e donne in eterna attesa. Arianna abbandonata da Teseo, Penelope che spera nel ritorno di Ulisse. Clitemnestra. Clitemnestra è moglie di Agamennone, re di Micene. Il marito, fratello di quel Menelao la cui moglie Elena fu causa della guerra più famosa del mondo antico, gliene fece di tutti i colori. Prima cercò di sacrificare la figlia Ifigenia per ingraziarsi gli dei, poi tornò da Troia con una schiava di nome Cassandra.
Era troppo. Tutti quei fottutissimi inverni di Micene ad attendere quel farabutto. E quelle estati dove i raggi del sole bruciano gli arbusti e il frinire delle cicale è assordante. L’Egeo, muto, in lontananza. Anni di niente. Il niente avvelena i pensieri, ovatta le coscienze. Clitemnestra uccise Agamennone. E pure Cassandra.
Andateci, a Micene. Salite fin nel punto più alto di quella che era la città. Osservate i fiori cresciuti tra le rovine. Osservateli ondeggiare al tiepido vengo d’Argolide. Fate finta di non vedere i pullman e le pizzerie “Agamennone” là in basso. Guardate l’Egeo lontano e sornione e poi chiudete gli occhi. I fabbri che preparano le spade, gli uomini che le bramano, le donne che sospirano, i bambini che piangono.
Le torce accese, gli inverni rigidi, gli arbusti tra le case, i sogni di gloria e fuga degli uomini, il niente delle donne, la morte. Micene.
3- I treni di Salonicco
Le persone non sono solamente carne e ossa, così come i luoghi non sono solamente materia. Quando giudichiamo un luogo infinite dinamiche si affastellano nella nostra mente. Così è stato per me Salonicco. A Salonicco ci sono arrivato in treno. Un viaggio lunghissimo, da Atene, di notte. Era il sabato di Pasqua e su quel treno c’erano solamente turisti solitari, zingari, bulgari e qualcos’altro. Sono arrivato a Salonicco alle sette di mattina di una Pasqua ortodossa e ad accogliermi c’erano solamente cani randagi, barboni e anime insonni. Ho sbagliato strada, sono finito in stazione. Non quella in cui sono arrivato, un’altra. La vecchia stazione di Salonicco. Quella da cui partirono decine di migliaia di ebrei verso i lager tedeschi. Salonicco, la più grande comunità ebraica dei Balcani. Salonicco, per me, è un treno.
Città aperta, nel cuore e nel corpo. Si presenta al mare con una piazza, come Trieste e Venezia. Della prima ha il crogiolo di etnie che la abitano, della seconda l’atavico amore per il commercio. Qui commerciano tutti: turchi, zingari, greci che siano. Commerciavano anche gli ebrei, prima che il treno li portasse via. Salonicco è fresca e guarda verso l’Olimpo, di là dal mare. Sull’Olimpo ci stanno gli Dei e guardano giù. In Grecia c’è sempre sempre qualcuno che ti guarda dall’alto. Strano per un paese votato all’orizzonte marino. San Paolo lo aveva capito e i luoghi che ricordano la sua predicazione sono tutti in altura. A Salonicco pare di essere tornati negli anni novanta: punk, metallari, no global, negozi di magliette di gruppi rock, canne, studenti in ogni dove. Non capisco perché gli italiani bramino tanto l’Erasmus in Spagna quando c’è Salonicco e le sue barche dove con cinque euro ti fai un giro a mare, una birra e la cameriera ti fa pure i complimenti per i tatuaggi.
Salonicco è un mare lucente, una moschea trasformata in chiesa dopo essere già stata chiesa e forse anche sinagoga. Salonicco è la statua di Alessandro Magno, che ti guarda anch’egli dall’alto, ma in riva al mare. Perché Alessandro, come Achille, aveva tanta brama ma poco tempo e l’India era un tantino lontana per perdere tempo a salire nella parte alta della città. Non c’è posto migliore che Salonicco per partire verso il mondo. Anche con il fido quadrupede Bucefalo al posto del treno.