Il grande freddo (Burian rmx)
Quando mi hanno detto che sarebbe arrivato un qualcosa dalla Siberia ero seduto sulla mia poltrona poco comoda ma molto piede de puole. Leggevo un libro sul mito di Orfeo e riflettevo se fosse il caso di alternare la lettura ad un po’ di sano autoerotismo. Poi la radio ha detto sta cosa sulla Siberia e io ho cambiato posizione. Niente di che, giusto spostare il peso da un gluteo all’altro. Cose per cui si può nominare la Siberia alla radio: ballerine di lap dance in un nuovo locale della Versilia, mostra sui mongoli in un palazzo di Brescia, freddo fottuto da far ghiacciare le palle, un nuovo libro di Lilin. Con buona pace della mia anima e delle sue precedenti esperienze siberiane. E dei Diaframma e del loro album del 1984, pure.
Mia nonna diceva che il caldo è peggio del freddo. Diceva che dal freddo, comunque sia, ti puoi difendere. Ci sono i cappotti, le coperte, i maglioni. Ne puoi mettere sopra anche più di uno, trasformarti in una pannocchia. Queste cose me le diceva quando eravamo sul divano, guardavamo programmi poco interessanti e la sua mente divagava in chissà quale antro della sua pluridecennale esperienza novecentesca. Io mi grattavo la pianta dei piedi e pensavo che qualcosa non filava in quel ragionamento. Allora guardavo la luce soffusa della lampada all’angolo della stanza e dicevo che in fondo anche con il caldo il ragionamento è equivalente sebbene opposto: basta togliersi tutto di dosso. Mia nonna si toccava il mento con le mani ruvide e nervose. Non sapeva che ribattere, ma due guerre mondiali le avevano insegnato che non la si dà vinta a uno sbarbatello nato negli anni ottanta.
La pelle Matteo. La pelle. Quella mica la puoi togliere.
Burian ha portato un ospite in casa mia. Non credo venga dagli Urali e manco che abbia preso l’onda di zefiro in Pannonia o nel Triveneto. Onestamente non saprei che ci faccia una cimice viva in pianura Padana a febbraio con -4. Antiche civiltà penserebbero ad un segnale divino. I vichinghi ne trarrebbero una scusa per violentare diciotto contadine del Sussex. I greci ci penserebbero su e finirebbero per farne una tragedia e poi, perché no, trovare il modo di scannarsi a vicenda e scriverci sopra un poema di mille esametri. I cristiani penserebbero che la fine del mondo è vicina e, vista la situazione, mi pare tra tutte la spiegazione più verosimile.
Il freddo mi dà noia al collo. In quella parte del corpo non lo sopporto proprio. Me lo figuro come una scarna mano bianca con le unghie viola, le vene in rilevo e le dita lunghissime che mi accarezzano il collo e spingono il mignolo in basso lungo la colonna vertebrale. Anche nelle mani non lo sopporto. Non perché ne soffra particolarmente, ma subito penso a quando, prima o poi, il sangue caldo dovrà scorrere di nuovo in quelle lande intorpidite e allora si che saranno dolori. In alcune zone il freddo mi piace. Nei genitali, ad esempio. Mi piace sentirli freschi, mi rende l’idea di vigore, gioventù, giovenche. Basta così.
La cimice non ha requie. Sembra un reduce di Caporetto. Mi guarda e forse ha paura che io la fucili per diserzione. Lei ha infangato l’onore della patria, se l’è data a gambe nell’ora del massimo sacrificio. Ora i tartari sono alle porte. Burian, la Siberia. Lei deve morire. Kaputt. In verità non ho alcuna intenzione di giustiziare nessuno. E poi le conosco, le cimici. Cercano solamente un po’ di luce. O un gabinetto dove qualcuno ha dimenticato di tirare l’acqua. Ci penso su e guardo in direzione del bagno. Non pare interessata, la cimice. Tutto apposto, quindi.
Questo inverno mi pare assai lungo e sono un po’ stufo. Ho molti progetti pronti per naufragare in porto, ma riguardano la bella stagione. La neve è ghiacciata. Un bambino imbardato di tutto punto per affrontare l’ascesa del Nanga Parbat tenta di staccarne un pezzo da terra per fare chissà che cosa, ma saggiatane la consistenza desiste. Si volta di scatto e mi vede alla finestra. Io non sorrido, lui nemmeno. Guardo la cimice arrostire su una lampadina e penso a mio bisnonno sulle alture del Carso cento anni fa. Cento anni precisi ad oggi. Il freddo, gli austriaci, le allucinazioni. Lui non sapeva della Siberia e nemmeno che le ondate di freddo avessero nomi tipo Burian. Mio nonno era analfabeta e forse manco sapeva di preciso dove fosse il Carso e perché quelli lì davanti gli sparavano. Forse anch’esso pensava ad una lampadina incandescente al cui calore arrostire la pelle. Forse l’allucinazione lo portò a immaginarsi lui stesso un filo di tungsteno incandescente. Giusto un attimo prima che un colpo di mortaio ne rendesse il corpo veramente un filo di tungsteno incandescente.
Fa un gran freddo. Un fottutissimo freddo. Alla radio dicono che non sanno quando finirà. È dai tempi di Gengis Khan che non arrivava nulla di così tosto dalle steppe della Siberia. In una vita precedente vivevo in Siberia. Ma nel frattempo ne sono passate altre e il grande freddo l’ho dimenticato. Comunque finirà e torneranno i prati, come diceva Ermanno Olmi. Perché questo e il prossimo e tutti gli altri sferzati dalla furia di Burian sono solo days in the life.
E questo lo dicevano i Beatles. Che hanno preso il posto del programma radiofonico. Chissà se la cimice ha mai sentito parlare dei Beatles. Chissà quanto è felice, ora, nella mia casa, unica superstite della sua specie in un fottutissimo inverno padano.