I pretzel cosmico storici
Il palazzo di Eugenio di Savoia dalla collina di fronte è una minuscola reggia di Versailles. Qui sulla Prinz Eugen Strasse lo chiamano del Belvedere e c’è una ragione per questo, anche se il cielo è grigio ed è una giornata di pioggia fredda e sottile, come cristalli di neve liquida. Vienna è splendida ed è tutta mia, oramai. Con il cappotto grigio abbottonato, lungo fino al ginocchio, e le braccia dietro la schiena mi sento un Napoleone che squadra l’orizzonte di una capitale conquistata al prezzo di tanti sporchi polacchi e un mucchio nutrito di rumorosi italiani. Non so che sta succedendo ma sento di compiacermi. L’aria che annuso sa di possesso, di gloria, di fasti epocali. Cammino su e giù per la collina, la mia futura moglie mi osserva stupefatta. Ho qualcosa di ridicolo in testa, a parte i paragoni bislacchi: un cappello di lana con paraorecchi fluttuanti che fanno sfigurare tutta la poesia dell’insieme. Eppure sono commosso. Ho appena scoperto la mia vocazione tardiva. Si tratta di essere individui cosmico storici.
Lei insiste col dire comico comici, ma è prevenuta con me, e per di più non si rende conto che sto per fare impallidire il sommo Hegel. Provo a discutere con lui della mia interpretazione eterodossa di un suo pensiero, tralascio di proposito ogni commento alla battuta di lei. Sono estasiato, fuori di me. Sento come di essere baciato dalla storia. Ho l’impressione che il cosmo si sia avvolto per qualche secondo attorno alla mia vita. Caro Hegel, non hai sempre tutti i torti, ma nemmeno tutte le ragioni. Non solo “i grandi della storia” hanno impresso in fronte il marchio della verità: ogni uomo ha le chiavi che aprono lo scrigno. Comunque sia, in fondo, mi sembra ben disposto e, addirittura, ragionevole. Con la futura moglie, invece, non è il caso di discutere.
Usciamo dai giardini del castello per dirigerci al Leopold Museum. Schiele e Klimt sono sempre puntuali e un po’ troppo mittleeuropei per le nostre abitudini mediterranee, non vorremmo anche stavolta farli aspettare. L’appuntamento è proprio al centro di quello che chiamano il quartiere dei musei. I due sono lì, Egon tagliente come un coltello affilato e Gustav in caffetano dorato, ci mostrano i loro ultimi lavori e rimango imbambolato per venti minuti davanti ai Quattro alberi (Viale di castagni in autunno).
Lo so che non dovrei dirvelo, a questo punto, ma le mie certezze vacillano dopo meno di un minuto. Ho smesso di guidare i miei dragoni a cavallo sulle alture austriache, ho perso ogni residuo piglio da condottiero e mi sento tormentato e maledetto come solo può essere un espressionista tedesco all’inizio del Ventesimo secolo. Adesso so di essere avanguardia, so che questo olio su tela è mio, venuto giù dai miei polsi. L’ho appena partorito con l’anima di assenzio. Ho parlato con Kafka, qui vicino, lui è d’accordo (la moglie in pectore, tanto per cambiare, decisamente no). So che quel sole arancione è un pezzo di me. So che quelle foglie d’autunno stanno per staccarsi dai rami del mio cuore. All’angolo della piazza, all’ingresso del museo, ci fermiamo al cafè Sperl, lei ordina una Sacher ed io un po’ maldestramente ricucio i miei pensieri. Kafka è scomparso in una metamorfosi che non ho capito, dopo avermi consegnato un biglietto da visita con su scritto “Cafè Montmartre Řetězová 7, Staré Město, Praga”. È più che un invito: è un altro appuntamento.
Non sono il principe Eugenio, nè tantomeno il Bonaparte, non ho sangue imperiale nè giacobino, non ho mai seriamente dipinto nè scritto alcunchè, eppure mi trovo ingaggiato in questa lotta con la realtà, che mi trascina da Vienna verso nord est. Perchè il Palazzo della Secessione è entrato dentro di me come una provocazione e così anche i giardini di Schönbrunn e quindi fuggo (sono costretto) dalle sponde del Danubio alla Moldova. Mi trovo a rincorrere Kafka. Condotto a squadernare il labirinto della Praga vecchia. Passeggiare sotto il castello di Rodolfo II e ricordare le sembianze di un ritratto di Arcimboldo. Seguire le linee spettacolari delle donne di Mucha. Attraversare la piazza del Municipio, sotto lo sguardo magico della torre con l’orologio. Ho bevuto, infine, al Cafè Montmartre l’ultimo sorso dell’attesa. Mentre lei osservava stupefatta. Pensavo si ripetesse il miracolo viennese: un’anima diventa la bellezza che le piove addosso. La bellezza che le passa accanto e le viene incontro nelle pietre, nelle tele, nei cafè, nel biondo intenso della birra. Pensavo che il miracolo si ripetesse, ma è accaduto altro. C’è, a volte, qualcosa che sorprende e supera i miracoli. Kafka non è venuto. Abbiamo svicolato proseguendo sottobraccio lungo il fiume. L’aria era fredda. Le luci dei lampioni calde e piene. La città si accoccolava ai nostri piedi e ci baciava. Uno di quei baci intensi, che non dimentichi nemmeno a centun’anni. Lei ha sbuffato ancora un’ultima volta per vezzo, attraversando il Ponte Carlo: me lo aspettavo. Di là dal fiume l’ho fatta felice con un cartoccio fumante di pretzel, coperti da un velo di zucchero.
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