L’insostenibile fascino della frontiera
Ci sono delle case e le case sono tutte uguali perché le hanno costruite pressapoco negli stessi anni e perché il conformismo, per chi ha sempre vissuto pigiato ad una frontiera, è qualcosa che ha a che fare con l’identità. Tutto è verde. Dentro e fuori le case alberi rigogliosi si susseguono e tagliano la vista. Fa caldo, molto caldo, ma mi pare sopportabile perché sono lontano da casa e il sole qui picchia molto meno. La strada è stretta e sgombra di auto, gli uccelli falsettano sul rumore lontano e attutito del porto di Trieste. Lei è dietro quella curva, dietro quella villetta e dietro quelle fronde verdi e indistinguibili. Però mi devo affrettare perché il bus che torna giù a Trieste passa ogni ora e se rimango qui son cazzi. Una frontiera è una linea immaginaria. Io però non resisto, non ho mai resistito.
Superiamo la frontiera, papà. Con un piede, papà, mi basta un piede soltanto. Ma papà era sempre in ritardo su qualcosa, io guardavo le barriere e l’omino dentro il gabbiotto che mi pareva sorridere e invitarmi di là, altrove, oltre confine. Immaginavo un paese straordinario oltre quelle sbarre bianche e rosse mentre un braccio più forte del mio desiderio mi spingeva in direzione opposta. Alle frontiere ci arrivo sempre in ritardo, io. Anche oggi che il mio braccio è libero e le sbarre sono levate.
In autobus ho avuto un’erezione. Sono le più belle. Quelle non richieste, intendo. Io le vivo come esercitazioni, una parte di me controlla che sia tutto a posto. Non si sa mai. A scuola le facevamo spesso le esercitazioni e a me sono sempre piaciute. Mi piaceva perdere dieci minuti di lezione e mi piaceva essere preparato. L’autobus ha lasciato alle spalle Trieste con i suoi caffè liberty e le sue donne alte e ricche di geni differenti e ha raggiunto Muggia. A Muggia i veneziani hanno dimostrato per l’ennesima volta la loro caratteristica principale: il narcisismo. Gente che aveva bisogno di specchiarsi ovunque, i sudditi del doge. Poi l’autobus ha iniziato a salire e da lassù Muggia non aveva alcunché di Venezia. Ma i veneziani, gente di mare e di pianura, hanno sempre guardato da e verso l’orizzonte. Loro in alto non ci sono mai andati. Altrimenti si sarebbero accorti che la loro città sembra un pesce e manco dei più belli. E sai che risate a Genova, Pisa, Istanbul.
Una salita è sempre una salita. Come una persona. E come una frontiera, anche. Ho preso l’autobus da Muggia per vedere una chiesetta al confine con la Slovenia. Non è vero, ma mi piace mentire a me stesso. Mi piacciono le bugie dalle gambe così corte che chi le dice sorride innocente. E io mi guardo riflesso nel finestrino del bus e nel golfo di Trieste e i miei baffi si arricciano in un sorriso che sfiora una petroliera. La chiesa, la salita. Il confine.
Una salita è sempre una salita, dicevo. Siamo noi a darle un significato differente. Questa salita, ad esempio, non se la caga nessuno. Eppure porta anch’essa ad una chiesa. Come la Cisa. O come il Ghisallo. Il Ghisallo, cazzo. Perché mi è venuto in mente il Ghisallo, la mitica salita del Giro di Lombardia? Mi guardo attorno di scatto e forse cerco consensi, ma chi altri potrebbe paragonare questa ascesa al Ghisallo? Ci siamo io, due badanti che parlano poco e ridono tanto e una coppia romana. Lei chiama il suo uomo continuamente per nome. Enzo, si chiama. Ho sempre pensato che infilare il nome in ogni frase è sintomo di paura. Come mettere la targhetta al collo di un cane. Se lo perdo lo ritrovo. Se passa il confine, però, sono fottuta.
Questo non è il Ghisallo. Il Ghisallo è un’ascesa più religiosa che sportiva. Ci si vota alla Madonna per scollinare primi, vincere la corsa, rimanere nelle storia. Diventare più uomini degli altri, differenti, importanti. Più delle badanti, più della coppia romana, più di me. Eppure il Ghisallo è asfalto e fatica come asfalto e fatica è questa salita senza nome e chi lo scollina per primo su una bicicletta è carne e ossa come carne e ossa siamo io, l’autista del bus, le badanti, la moglie romana e suo marito Enzo.
Però le cose non stanno così. Altrimenti quella che ora ho davanti non sarebbe una frontiera e io non avrei fatto tutta questa strada per superarla dopo averla vista, minuscola e lontana dalle grandi vie di comunicazione, su una mappa locale. Perchè se le cose non avessero nome e significato le frontiere non sarebbero nemmeno concepibili. Mi piego sulle ginocchia fino a percepire il calore dell’asfalto. La frontiera è a cinquanta metri. Una frontiera secondaria, di una stradina di montagna. Qui la storia non è mai passata, al massimo qualche contrabbandiere. Non c’è più nessuno, qui, a dirti che stai per entrare in Slovenia. Non è importante, non lo è più. Gli uomini hanno ormai tolto significato a questa linea. Un gabbiotto abbandonato e un cartello di benvenuto. Un cane mi guarda da dietro un cancello. Non abbaia, non scodinzola, mi osserva e si chiede se finalmente la storia si è decisa a passare da lì. Io mi accarezzo la barba, mi alzo e faccio cenno che no, non credo, perché quello di prima non era il Ghisallo e questa non è la frontiera del Brennero dove passavano gli eserciti imperiali e io non sono né Girardengo né Federico II e lui non è Rin Tin Tin. Così vanno le cose, così devono andare.
Lui sbadiglia, tira fuori la lingua e sorride. Non è passata la storia, non ci passerà mai per questa frontiera e allo stesso modo lui è felice perché per un attimo ha visto nei miei occhi il Ghisallo e l’insostenibile attrazione di un bambino verso tutto ciò che è confine, immaginazione, e oltre. E penso gli sia bastato per dare senso a una dozzina di anni di inutile veglia. Ora è adagiato sul cancello di casa, la testa sulle zampe, e mi pare di intravvedere nei suoi sogni campioni in bicicletta e eserciti imperiali.
Le cose hanno il significato che noi diamo loro. Le persone pure. Non sono solo materia, sono l’accumulo di vicende, emozioni. Sono il caso e la narrazione. Non l’ho superata quella frontiera. Perché era tardi e perché, in fondo, altro non era che una linea come tante a cui abbiamo dato una valenza differente. Una linea che il bambino che ancora abita in questo corpo ha ammantato di ricordi, desideri e chissà che altro. Quello che in gergo si dice fascino. Il fascino irresistibile della frontiera.