La civetta e Galileo
In un senso molto naturale il centro dell’universo sono io e lo dico senza falsa presunzione né una briciola di orgoglio, tanto per mettere subito le cose in chiaro. Sono io il centro dell’universo perché per me l’universo è tutto quello che mi ruota attorno. Se la cosa non vi suona troppo strana, pensateci bene, è perché ciascuno di noi crede di essere il centro del mondo e ha, naturalmente, una buona parte di ragione a crederlo. Ogni santamattina che il buondio ci concede notate con quanta cura e precisione ci sforziamo di aprire gli occhi per piazzarli su una prospettiva solida e maneggevole, la nostra, come su un treppiedi in titanio indistruttibile, mettendo a fuoco tutto quello che ci accade sempre e soltanto secondo il nostro individuale punto di osservazione.
È naturale e giusto, ma non possiamo non renderci conto di quanto sia insieme intrigante e misterioso questo fenomeno. Sette miliardi di centri dell’universo si svegliano ogni mattina per riordinare il mondo a loro piacimento, dimenticando di essere, ciascuno, il semplice punto di appoggio di due occhi e un cuore umano troppo umano, direbbe l’amico Nietzsche. Fatta eccezione per idioti e bambini, che proprio non sanno distinguere i confini tra io e mondo, immagino che per tutti gli altri funzioni più o meno come con il sistema planetario. Sappiamo certo di non essere il sole, ma niente ci impedisce di fatto di considerare quella palla infuocata e luminosa come una semplice appendice satellitare del moto di rivoluzione cosmica intorno all’asse che unisce il nostro capoccione alla punta dei nostri piedi. Il discorso meriterebbe un approfondimento, ma non siamo soliti filosofare al ventotto di luglio quando il mare luccica e tira forte il vento (cit.) se non altro perché il mare luccica e tira forte il vento e c’è sempre tempo per filosofare in altre occasioni e urtare la sensibilità permalosina del nostro ego. Ma, comunque sia, un’aggiunta a questa semplice e auto-evidente costatazione amichevole nei confronti di noi stessi devo pur farla.
Quando a meno di un anno di vita decisi che era giunto il momento per tentare il grande salto verso l’ignoto, dovevo all’incirca pensarla più o meno nei seguenti termini. Se qualcuno mi ha dato la sete inestinguibile della conoscenza e un trampolino per saltare verso l’infinito e oltre (cit.) è giusto e naturale che io mi tuffi senza pensarci troppo. Se l’universo mi ruota attorno non potrò mai precipitare veramente ma solo volare all’infinito.
Purtroppo a dispetto di ogni mia previsione precipitai e quando l’atterraggio a pochi centimetri dai piedi del mio seggiolone fu perfettamente riuscito, con applauso finale di tutti gli ammirati spettatori all’acrobatico pilota, il mio gomito sinistro sbriciolatosi al suolo come un biscotto Plasmon fruttò un memorabile bye bye alla teoria michelocentrica. Quel gomito e tutto ciò che da quel momento lo ha riguardato è come se avesse tracciato una storia parallela alla mia vita. Il mio gomito sinistro potrebbe essere il super titolo di una autobiografia melodrammatica che prima o poi deciderò di scrivere. Comunque sia, a parte tutto, a quel mucchietto d’ossa storto e bruttino mi ci sono affezionato e lo contemplo con tenerezza, per lo più come si potrebbe fare con un figliolo nato scemo che si è amato fin da subito di un amore struggente, pur sapendo che non avrebbe mai indovinato manco a pagarlo oro il risultato di un due più due. Per di più quel gomito mi accompagna fedelmente anche nei momenti di esaltazione da prima della finale mondiale dell’82, come un post-it incancellabile della mia tracotanza, e credo di averlo alzato storto al cielo l’ultima volta per il gol di Bernardeschi alla Spagna soltanto una ventina di giorni fa.
La chiamerò operazione Galileo e consiste in tre semplici mosse di decentramento consapevole che poi sono tre finali a sorpresa.
Stamattina accanto al nostro ombrellone, in spiaggia, è successo qualcosa. Ci hanno riferito che qualcuno si era sentito male e infine doveva esser morto un uomo. Noi abbiamo avuto soltanto la percezione di uno sguardo perso nel vuoto e di una scena di solidale e pietoso sgombero. Un finale a sorpresa, in senso letterale, potrebbe essere proprio così: un requiem eterno nato sul frangionda di una spiaggia a due passi da casa. Oppure, questo pomeriggio ho portato l’Ibiza all’autolavaggio dopo mesi e mesi di rinvii pretestuosi e lì ho incontrato il lamento di un cane disteso lungo un muricciolo in ombra. Quel lamento mi ha subito fatto esclamare: cucciolo cos’hai!? È stato istintivo come se avesse pianto un bambino piccolo e indifeso. I presenti parlavano di un incidente, di una ferita alla testa, di un cane che non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere. Mi è venuta incontro una grande e triste nuvola come di incenso. Ho sentito un profondo sacro rispetto per quel dolore sconosciuto, appoggiato col muso a un muretto basso di campagna. Oppure ancora un altro finale potrebbe essere il seguente. Ieri notte, mentre camminavo al buio, mi hanno sorvolato a dieci metri di altezza il volo lento e le ali spiegate di una civetta. L’ho riconosciuta, perché il giorno prima avevo sentito nelle vicinanze il suo canto. L’ho riconosciuta perché l’aspettavo. L’estate che doveva nascere Manuela, tre anni fa, una civetta si era poggiata sul terrazzo di casa e l’avevo salutata come un segno ben augurante di sapienza e saggezza per la piccola in arrivo. Fra un mese sarà tempo per un altro sole (luna, marte, venere o che so io) di venire al mondo: aspettiamo con trepidazione la secondogenita. Quella civetta è molto ben informata sui fatti miei evidentemente, non avrebbe potuto mancare all’appuntamento con questa nuova nascita.