Dio delle autostazioni
Ho vissuto le autostazioni. Le ho vissute di giorno, brulicanti e frenetiche, ma soprattutto alle prime ore dell’alba, appena sveglio. Un uomo appena sveglio, per giunta lontano dal suo habitat naturale, è niente più che un gatto spelacchiato. Disorientato, dinoccolato, insicuro. Sensibile e fragile come un bambino. Non si pena nemmeno di cercare la spavalderia nel giaciglio. Tutt’al più lo vedrete stringere la dignità tra le palpebre, masticare l’onore con i denti. Non c’è esperienza per queste cose.
All’andata non avevo potuto dormire. Ero arrivato a Trieste con gli occhi solcati da fiumi carsici rigonfi di sangue. Avevo smadonnato lungo il viaggio, che tanto quella vicino a me era bionda e bianca e ad occhio e croce preferiva la Sacher al Tiramisù. Poi a Trieste è scesa pure lei e ha mandato un messaggio vocale alla mamma con accento giuliano e allora ho capito che a Trieste non ti puoi fidare dei pigmenti della gente.
La sera prima del lungo viaggio in bus per ritornare a Bologna avevo già bevuto tre lattine di birra al bar dell’autostazione di Zagabria e ancora contavo le Kune per capire se ci stava una quarta lattina o se fosse meglio spendere i leoncini, i tonni e i puma d’argento in sigarette a buon mercato. Poi ho tirato fuori una banconota da 10, l’ultima, e c’era un bel pretino con sguardo slavo, fiero, che ho indovinato contrario al tabagismo. L’ho assecondato. Però mi stava anche sui coglioni perché dopo la terza birra nessuno mi deve influenzare con lo sguardo e ho quindi deciso di sacrificare lui stesso, che forse volevo portare con me, in cambio di una quarta birra.
L’autostazione di Zagabria è un aeroporto. Si piscia con i gettoni, ci sono i gate d’ingresso, i panini fanno cagare, le commesse sono sgarbate, i profumi sono a buon mercato ma non invogliano e i barboni dormono con ritegno sulle panchine. Alcuni penso si lavino pure i denti. Mentre bevevo e fumavo come un disgraziato uno di loro mi ha sorriso e i denti c’erano tutti e trentadue. Gli ho fatto pollice su, lui non ha capito. Io invece ho capito che ero un po’ sbronzo. Enorme l’autostazione di Zagabria. Non si capisce nulla. Gli autobus sfrecciano tra i passeggini e le valigie, investono i vecchi che tanto di giovani c’è il pieno in tutti i balcani, scaricano e caricano figli di Tito ovunque. Gli autisti rispondono in illirico stretto e capiscono tutt’al più un po’ di dialetto kosovaro. Hanno il cazzo sempre girato e le spalle larghe, rispondono di merda quanto più è la distanza tra il loro luogo di nascita e quello dell’interlocutore. Le giapponesi ci escono di testa con questi giannizzeri mancati. Bonognia? No, Sktrvnyom. Sorry? Blk. Sorry? Fanculo te e tutta Hiroshima (traduzione di chi scrive).
Sul bus dispensavo lezioni di vita a chiunque. Avevo un dito indice lunghissimo e ho scannerizzato le storie di tutti. Alla dogana ho dispensato sbuffi e smozzicato parolacce a qualsiasi divisa incontrassi e poco prima di Lubiana le birre hanno fatto il loro effetto e mi sono addormentato. Così quando ho sentito l’autista pronunciare Bologna senza vocali, gli altri erano già pronti da un po’ mentre io avevo le mie cose sparse ovunque e i pantaloni slacciati e un calzino l’ho pure lasciato sul bus. Gli autisti mi avrebbero voluto infoibare e i pochi svegli non avrebbero certo testimoniato a mio favore. Scusi, scusi. Hvala, Mister. Un cucciolo spelacchiato.
L’autostazione di Bologna alle quattro del mattino è una delle meraviglie dell’umanità. Se è opera di Dio, la deve aver plasmata il sabato sera dopo la festa d’inaugurazione della terra. Mi siedo e raduno le idee. C’è un bus in partenza per Napoli davanti a me. Un residuato bellico della Bologna ’77, capelli radi ma lunghi e denti a merletti, dà il buongiorno a tutti. Che vuole?, fa un autista all’altro, che sta proprio appresso al mattacchione. E l’interpellato, una mano in tasca e l’altra alla bocca, guarda l’ex allievo del Dams e dopo aver emesso il fumo della sigaretta esclama caustico: Nu’ cazz.
Un tale dice di essersi innamorato di una polacca, ma lo dice a Maria, che è la persona sbagliata e non ha una buona idea della gente che abita ai piedi dei Carpazi. E non glielo manda a dire. Altri stanno seduti e guardano i bus e non ci sarebbe niente di male se non fossero le quattro del mattino e non avessero con sé alcuna borsa, né tanto meno cani al guinzaglio da far pisciare. Mi ci rivedo in questa categoria. Quando ero un ragazzino alla sera andavo all’autogrill appresso a casa mia e guardavo le macchine arrivare. Leggevo le targhe, immaginavo storie e percorsi. Era come essere in vacanza senza poterselo permettere.
All’uscita dell’autostazione l’atmosfera è surreale. Un neon sfarfalla, un rumore meccanico e continuo si perpetua nel silenzio assoluto. Sulla sinistra una carrozzina sostiene un impermeabile. Le fattezze sono umane, ma pare non esserci vita sotto la cerata. Ma è chiaro che sotto il cappuccio c’è invece una testa sognante. Anche lui in questo momento dev’essere sensibile e fragile come un bambino. Me ne sto alcuni secondi a osservare. Il rumore non cessa e non perde il suo ritmo ossessivo. Il neon lo segue con il suo batter d’ali. A poche decine di metri alcuni africani in preghiera in un parchetto. Mi rovisto le tasche senza motivo, quindi me ne vado verso la stazione dei treni fischiettando il valzer di Sostakovich. Senza sapere nemmeno io perché. Forse perché manca solamente una giusta colonna sonora.
Le autostazioni sono un rifugio di cose perdute. Ci si perdono gli autobus e non si sa come fare. Ci si perdono i sogni, quando l’alba porta luce e rumore, e parimenti non si sa come fare. Ci si perdono i giorni e le notti e con esse anche i ricordi d’infanzia. Non ci sono bambini nelle autostazioni di notte eppure tutti sono stati bambini. I turisti in attesa, quelli smarriti, i clochard, i matti per nascita e quelli che la ragione l’hanno persa per strada.
Tutti qui hanno perso qualcosa. E forse il senso ultimo dell’autostazione è proprio questo. Verrà un giorno e porterà con sé un sole tiepido e un bus dai colori sgargianti e le luci al neon. Dentro ci saranno le scelte che andavano prese, la fortuna, la ragione, le gambe buone, i soldi, il lavoro, le città mai viste, quelle mai esistite, le coincidenze giuste.
La notte, nelle autostazioni, tutti attendono quel bus. Il Dio delle autostazioni.